2-1-2020
La ragazza con la Leica, de Helena Janeczek
| NOTA DE LEITURA 
 
		Este poderia ser um livro agradável se a autora tivesse um pouco de pena 
		do leitor e se explicasse um pouco melhor. Não tem datas, salta para a 
		frente e para trás e o leitor não sabe onde é que ela vai. 
		Não consigo perceber qual a lógica de a Itália atribuir o prémio Strega 
		a esta obra quase ilegível. Talvez daqui a uns anos, alguém faça uma 
		edição anotada que facilite a leitura. 
		Após ter lido umas dezenas de páginas, parei para consultar a Wikipedia, 
		alguns artigos publicados sobre Gerda Taro e as recensões do livro. 
		Estava totalmente perdido e só assim consegui prosseguir a leitura. 
		Ainda assim, a figura de Gerda Taro não deixa de ser apaixonante. E, de 
		facto, há agora a tendência para a exaltar tanto que põe bastante sombra 
		sobre a figura de Robert Capa em Espanha. 
		Apesar de tudo, é interessante a narrativa paralela dos dois 
		antigos namorados, 
		
		William Chardack 
		e 
		
		Georg Kuritzkes, um de cada lado do Atlântico, que relembram os bons 
		tempos da juventude e a figura de Gerda Taro que a ambos encantara. 
 | 
il manifesto
Biografie romanzate. Gerda 
Taro, compagna di Robert Capa, fu la prima fotoreporter caduta su un campo di 
battaglia, durante la Guerra civile di Spagna: «La ragazza con la Leica» di 
Helena Janeczek (Guanda) ne ricostruisce la drammatica storia
EDIZIONE DEL 
28.01.2018
Tutti sanno chi è Robert Capa, mentre ben pochi sanno chi è Gerda Taro. Gerda 
Taro è lo pseudonimo di Gerta Pohorylle, la fotografa nata in Germania nel 1910 
da una famiglia di ebrei polacchi e morta nel ’37 durante la guerra di Spagna, 
che stava seguendo con l’intento di documentarne gli orrori. La sua relativa 
notorietà è però dovuta al sodalizio con l’ungherese Endre Ernö (André) 
Friedmann, un rapporto intensissimo di natura sentimentale e professionale, che 
diede vita al marchio Robert Capa: i due infatti si alternavano negli scatti e 
presentavano i loro lavori senza che fossero distinguibili le singole 
individualità. La morte precocissima colse la giovane fotoreporter (la prima 
caduta sul campo di battaglia) a ventisette anni, a Brunete, 25 chilometri da 
Madrid, dove era in corso una delle più cruente battaglie della guerra civile 
spagnola: Gerda fu travolta da un carro armato amico, mentre fotografava gli 
scontri e incitava i compagni di fede all’azione rivoluzionaria. I compagni 
giornalisti e reporter che erano accorsi in difesa della repubblica assediata 
avevano portato con sé le armi proprie del loro mestiere: penne, macchine 
fotografiche, cineprese.
Per raccontare di Gerda Taro Helena Janeczek ha messo in piedi un romanzo (La 
ragazza con la Leica, Guanda «Narratori della Fenice», pp. 335, 
€ 18,00) costruito come un polittico: ha suddiviso il materiale in tre parti, 
tre storie narrate secondo il punto di vista degli amici della fotoreporter e di 
André, ovvero Capa. Le sezioni sono dedicate a Willy Chardack «Il Bassotto» (uno 
studente di medicina che diventerà poi in America un famoso cardiologo, noto 
soprattutto per la messa a punto del pacemaker); a Georg Kuritzkes, membro della 
Lega degli studenti socialisti: entrambi erano stati fidanzati di Gerda, la 
quale esercitava su tutti un fascino irresistibile, frutto di esuberanza, 
spavalderia e sprezzo delle convenzioni; una sezione riporta poi la voce di Ruth 
Cerf, l’amica del cuore, quella con cui condividere le passeggiate per le strade 
di Parigi, quando entrambe erano troppo povere per permettersi il lusso del 
metrò.
La vita di Gerda si offre per lampi rapidissimi, a cominciare da quando, 
studentessa a Lipsia, subisce l’arresto per attività antinazista e se la cava 
ostentando un abito di buona fattura e una ingenuità da ragazza di buona 
famiglia. A distinguerla c’erano la fierezza e l’ottimismo di un carattere che 
di fronte alle avversità le faceva pronunciare la sua frase preferita: «Non 
demoralizziamoci!». Negli anni ottanta, a Buffalo, così Chardack ricorda la sua 
antica fidanzata: «Era volubile e volitiva, un metro e mezzo di orgoglio e 
ambizione, senza tacchi». Era stata Gerda a trovare lo pseudonimo anche per 
Capa, ed è Gerda a maneggiare la preziosa Leica, quella che «Life» aveva 
affidato a lui e con cui ora Gerda sta scattando le ultime foto, prima di essere 
sbalzata a terra. Dopo quel momento tutto acquista il colore della tragedia e 
gli amici e gli ammiratori della giovane fotografa porteranno il ricordo della 
sua morte come la cicatrice di una mutilazione. Capa, annientato dal dolore, 
diventerà lo spettro di se stesso.
Janeczek si rivolge a lettori che suppone informati sulle vicende della Taro e 
di Capa e procede per affondi nell’immaginare come quella coppia sia stata vista 
e vissuta dall’esterno. Esattamente come una macchina fotografica o una 
telecamera, l’autrice si avvicina ai testimoni e interroga il deposito dei loro 
ricordi con l’intento di far venire fuori un ritratto di Gerda e insieme di 
quegli anni cruciali, durante i quali si consumarono le prove generali della 
seconda guerra mondiale. Viene confermato che il sodalizio professionale e umano 
Taro/Capa fu di intensità e brevità fulminanti. Le fotografie incluse nel 
romanzo (fresco vincitore del Premio Bagutta 2018) colgono infatti due giovani 
legati da un’intesità profondissima seduti a un caffè di Barcellona, ma quello 
che viene trasmesso dalle immagini e dalla narrazione è la drammatica 
consapevolezza di quanto momentanea fosse tutta quella felicità. Quegli attimi 
di tranquillità e di gioia vitale stavano per essere spazzati via per sempre 
dalla guerra e dalle tragedie che ne sarebbero derivate, per i due fotoreporter, 
per i miliziani e per l’Europa tutta.
Il punto di vista della narratrice resta ancorato all’occhio dello strumento, i 
movimenti di macchina compiuti per catturare i dettagli anche minimi non fanno 
che rammentare costantemente al lettore che quella è una narrazione, una 
ricostruzione a posteriori e che ogni storia è storia raccontata da un testimone 
al quale viene affidato il compito di tenere in vita ciò che è stato e non è 
più. Esattamente come la fotografia, che coglie il soggetto in quell’attimo 
unico e irripetibile perché mai nessun dopo sarà come il prima. E se questo è lo 
spirito che ha guidato la composizione di questo documentatissimo libro, il 
compito che Janeczek ritiene proprio della Letteratura è analogo a quello del 
reportage di guerra, catturare le immagini e le storie e portarle fuori dal 
campo di battaglia, fuori dal destino di morte cui sono condannate la maggior 
parte delle vicende umane.
Nell’Epilogo i fili tenuti separati nel corso della narrazione vengono a 
ricongiungersi parzialmente, e acquista rilievo l’appassionata vicenda di 
Cornell Capa, intento a dirimere la questione che da un certo punto getta 
un’ombra sulla figura del fratello. È noto che di recente sono stati sollevati 
molti dubbi sull’autorialità di quella che è la fotografia più nota di Capa, 
quella del miliziano colpito e ripreso nell’istante che precede la morte; e 
nella parte finale del romanzo si tenta di ricostruire i movimenti delle foto e 
dei negativi sottratti alla furia nazista, affidati a terzi e poi fortunosamente 
ritrovati, senza che però sia possibile dire una parola definitiva sulla 
questione. Dunque il polittico si apre intorno a uno spazio che resta vuoto per 
molti aspetti. Di Gerda, di Capa, dei loro amici e compagni e di quel che 
avvenne in quegli anni tremendi abbiamo istantanee mute, e del passato rimane 
una cassetta di foto da leggere e delle quali tentare di identificare soggetti, 
luoghi e talvolta anche autori.
La biografia della gioia di vivere
recensione di Beatrice 
Manetti
   
dal numero di gennaio 
2018
Helena Janeczek
LA RAGAZZA CON LA LEICA
pp. 330, € 18
Guanda, Milano 2017
La “ragazza con la Leica” che dà il titolo al nuovo romanzo di Helena Janeczek è 
Gerda Taro, nata Gerta Pohorylle: una jeune 
fille intelligente 
e spregiudicata della borghesia ebraica di Stoccarda, cospiratrice antinazista a 
Lipsia e a Berlino per amore di un uomo e della libertà, grande fotografa a 
Parigi per merito e a fianco di un profugo ungherese che deve alla sua 
immaginazione l’invenzione del nome d’arte col quale è universalmente conosciuto 
– Robert Capa –, morta a Brunete sotto un carro armato alla fine di luglio del 
1937, ad appena ventisette anni, mentre documentava la caduta della Spagna 
repubblicana. Il suo volto sfrontato e malizioso, il suo talento felino per la 
vita, la sua civetteria, la sua tenacia e il suo coerente trasformismo riempiono 
ogni pagina del libro, ma arrivati alla fine si può dire di lei solo una cosa: 
Gerda Taro non esiste. È paradossale che un romanzo biografico, frutto di una 
lunga e minuziosa documentazione testimoniata dai ringraziamenti in calce, 
trasformi in un fantasma inafferrabile proprio la sua protagonista. Eppure la 
sua autrice ha scelto consapevolmente di raccontarla così. Come un motore 
invisibile, un catalizzatore di destini altrui, una raffica di vento improvvisa, 
vivificante, fugace e imprendibile: “Era la gioia di vivere. Qualcosa che 
esisteva, si rinnovava, accadeva ovunque, prima a Lipsia e poi a Berlino: nella Pension non 
lontana dal suo studentato, nella camera affittata dietro l’Alexanderplatz 
presso la vedova di guerra Hedwig Fischer e, infine, sulla branda di Max e 
Pauline, detta Pauli, in pieno Wedding”.
Tre protagonisti
Come si scrive la biografia della gioia di vivere? Non con un ritratto a tutto 
tondo, neppure con un’elegia generazionale, meno che mai con un affresco 
storico. Helena Janeczek lo ha fatto con un po’ di tutto questo, intrecciato 
però alla memoria privata dei tre veri protagonisti del romanzo. Tre testimoni 
parziali, coinvolti, inattendibili, di una vita che ha incrociato le loro, 
sfuggendo di mano anche a loro: il primo è il dottor Willy Chardack, ebreo 
tedesco come Gerda e come Gerda rifugiato a Parigi dopo la salita al potere di 
Hitler, che una domenica mattina del 1960, mentre passeggia nei tranquilli 
sobborghi di Buffalo, New York, è assalito dall’apparizione di una giovane donna 
in “calze di pizzo e scarpe di una gradazione poco più scura, l’abito colore 
avorio (…) i capelli castani (…), una distesa di epidermide appena ambrata”, che 
si specchia nella vetrina di un negozio di Stoccarda e che sotto i suoi occhi 
adoranti e sbigottiti diventa in pochi anni un soldato temerario armato soltanto 
della propria macchina fotografica; la seconda è l’exmodella Ruth Cerf, alla 
quale il ricordo di Gerda fa visita una plumbea mattina parigina del 1938, alla 
vigilia della sua partenza per la Svizzera con il marito; il terzo chiamato a 
“deporre” è Georg Kuritzkes, che nella stessa domenica di Willy Chardack, ma 
dall’altra parte dell’oceano, vagabonda a bordo di una Vespa alla periferia di 
Roma in cerca di un amico fotografo e di un passato liquidato dalla storia.
Di Gerda Taro, i due uomini sono stati amanti più o meno passeggeri; ora hanno 
un filo di pancia, occhiali da vista, uno una moglie l’altro nessuno, entrambi 
un lavoro prestigioso, utopie fallite, ricordi indisciplinati, il mite 
disincanto degli apolidi. La donna è l’amica del liceo che con Gerda ha 
condiviso l’adolescenza e i primi amori, una stanza d’albergo e un aborto, e che 
nel 1938, nell’atelier Robert Capa, sviluppa negativi, cataloga “le immagini di 
quella guerra perduta” e sorveglia la carriera in ascesa e il lutto declinante 
del titolare. Nell’andirivieni delle loro memorie, scandite dalla cronologia 
interiore del rimpianto o del risentimento, da reticenze e da cortocircuiti 
imprevedibili, Gerda 
Taro diventa, più che un personaggio dai contorni definiti, l’oggetto di una 
nostalgia lunga vent’anni, 
il rimosso e il precipitato collettivo di una generazione la cui giovinezza è 
divampata e è andata in cenere negli anni delle dittature europee, della bohème 
parigina, nell’effimera euforia della vittoria del Fronte popolare e della 
repubblica spagnola, nel genocidio degli ebrei e nella diaspora degli scampati 
alla persecuzione.
Affresco corale e ricordo privato
Helena Janeczek lavora da sempre nell’editoria ma scrive un libro ogni sei anni, 
indifferente alle leggi del mercato editoriale, fedele solo alla necessità di 
ciò di cui racconta. E nei libri che scrive sa come intrecciare memoria privata 
e storia collettiva. In Lezioni 
di tenebra (1997) 
e nelle Rondini 
di Montecassino (2010) 
il trauma di sua madre sopravvissuta ad Auschwitz, le peripezie di suo padre 
scampato fortunosamente alla Shoah, la sua stessa paradossale genealogia di 
ebrea nata a Monaco da due ebrei polacchi naturalizzati tedeschi e diventata 
italiana nella vita e nella scrittura, erano il sasso gettato nello stagno del 
medio Novecento, i cui cerchi concentrici si allargavano fino ad abbracciare la 
lunga durata e le contaminazioni globali di un secolo che non ha ancora finito 
di far pesare la propria eredità.
Nella Ragazza 
con la Leica quel 
miracoloso equilibrio tra affresco corale e nodi familiari, tra epica e memoir, 
che era appannaggio esclusivo della voce dell’autrice, è conquistato solo a 
tratti, più spesso che altrove nel capitolo dedicato a Ruth Cerf, forse perché 
l’amicizia tra due donne è più sfaccettata e controversa dell’amore tra un uomo 
e una donna. Nei due pannelli laterali del romanzo, in cui a parlare e a 
ricordare sono rispettivamente Willy Chardack e Georg Kuritzkes, la scelta di 
cedere la parola ai testimoni rimane sempre una strategia ingegnosa ma si rivela 
anche un azzardo, perché la devozione postuma fa velo alla memoria del primo, 
“il Bassotto” sedotto e abbandonato nel giro di pochi mesi, che rischia di fare 
del ritratto di Gerda un santino dell’anticonformismo; e la tentazione 
didascalica si insinua nei ricordi del secondo, mettendogli in bocca un 
compendio di storia europea del Novecento, dall’incendio del Reichstag alla 
crisi del Congo, con lo stridore dei romanzi storici troppo scopertamente 
programmatici.
Ma nel capitolo finale, che riprende nell’impianto quello d’apertura e che vale 
da solo tutto il libro, la voce è proprio quella, inconfondibile, di Helena 
Janeczek: intima, potente, avventurosa, capace di partire da un dettaglio – due 
fotografie di Gerda Taro e Robert Capa seduti a un tavolo del Café du Dôme – per 
scandagliare le pieghe di una relazione troncata troppo presto per essere 
davvero decifrabile, di seguire una valigia di fotografie da un capo all’altro 
del mondo insieme alle vite di chi le ha scattate e di chi le ha salvate, e 
infine di concedersi la prima persona, risalendo di colpo dalle storie degli 
altri alla propria storia, con un piccolo coup 
de théâtre che 
sigilla il romanzo con l’autobiografia, nella convinzione “che per ritrovare 
qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione”.
B Manetti insegna 
letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino
http://www.riccardocaldara.net/
   
La fotografia è fatta di nulla, inflazionata, merce che scade in un giorno.
Confermo che non vado d’accordo con i premi letterari. Devo starne lontano e 
avvicinarmi alla lettura dei libri vincitori soltanto dopo che il tempo, a volte 
tanto tempo, ne ha determinato la bontà. Così sostengo e ripeto da sempre. Sulla 
vincitrice del Premio Strega 2018 sono inciampato perché mi intrigano le storie 
sulla guerra di Spagna. Avevo ancora negli occhi il film di Philip Kaufman Hemingway & Gellhorn (2012) e nella 
mente il libro Un 
momento di guerra di 
Laurie Lee. Helena Janeczek ha scritto un romanzo biografico sulla vita di Gerda 
Taro, per un breve tratto compagna di Robert Capa e fotografa a sua volta. Per 
farlo si è documentata in profondità su quanto, in lingua tedesca, era già stato 
scritto su entrambi. Poi ha romanzato la storia, come dimostrano i dialoghi 
molto accurati. Le cose migliori tuttavia sono le ricostruzioni, fuori dal 
romanzo, di alcuni scatti che ritraggono i due fotografi a Barcellona e a 
Parigi. I fotografi fotografati, insomma.
Un uomo moro e una biondina con il caschetto fotografano una biondina con il 
caschetto e un uomo moro che sorridono felici. …Una piccola coincidenza ha 
voluto che i fotografi, appena sbarcati a Barcellona, si fossero imbattuti in 
una coppia a cui somigliavano.
La Janeczek ricostruisce la breve vita di Gerda Taro, Pohorylle il vero cognome 
(Stoccarda, 1910 – Brunete, 1937) attraverso le testimonianze di tre personaggi. 
Willy Chardack, ebreo tedesco come Gerda, emigrato negli Stati Uniti per 
sfuggire a Hitler, un po’ spasimante e un po’ cavaliere servente preso e subito 
mollato da Gerda ai tempi di Berlino, poi divenuto uno scienziato importante. 
Georg Kuritzkes, che con Gerda ha avuto una frequentazione un po’ più lunga, poi 
medico alla FAO di Roma. I due uomini si sentono al telefono un giorno degli 
anni Sessanta, parlano di Gerda e proseguono un dialogo a distanza. La terza 
testimone, inserita tra i due capitoli ‘Chardack’ e ‘Kuritzkes’, è Ruth Cerf che 
di Gerda è stata amica del cuore in Germania e poi a Parigi. Sono testimonianze 
a se stanti, talora non coincidenti, attraverso le quali prendono forma la 
figura della fotografa e il suo rapporto con Robert Capa, di cui, a quanto pare 
è stata il pigmalione. Liberi sì, e affratellati negli ideali e nei 
sentimenti, ma non uguali… Erano diversi, erano complementari...
La narrazione procede con balzi in avanti e indietro e risulta di difficile 
decifrazione se non si possiedono nozioni parallele, peraltro facili da 
reperire, sulle vite di Capa e Taro, sui loro amici, sulle atmosfere di Parigi 
negli anni Trenta, rifugio di fuoriusciti dalla Germania e dall’Italia, 
intellettuali, giornalisti e fotografi non soltanto ebrei, infine quartier 
generale delle brigate internazionali con un filo diretto per la Spagna. 
Tuttavia era una vita da bohémien la loro, avventurosa e divertente anche se 
sempre in bolletta.
L’ormai un pizzico famoso Robert Capa appariva sul boulevard della Rive Gauche, 
tutta esuberanza, tutto agio sessuale, cingendo in vita la ragazza che aveva 
rimorchiato per la serata. Quanto sarebbe durata Gerda con uno così, un uomo che 
andava a ritirare il loro cachet e lo spendeva in sbornie e sciacquette?
Pare proprio che sia stata Gerda a scoprire e a valorizzare il fotografo 
ungherese Endre (Andrè) Friedmann e a fornirgli lo pseudonimo Robert Capa, che 
faceva un po’ americano e un po’ italiano. Anzi, per qualche tempo le foto 
pubblicate sui giornali con quel marchio erano di entrambi.
…la signorina Pohorylle, cittadina polacca nata a Stoccarda, possedeva le virtù 
marziali che Hitler pretendeva dalla gioventù tedesca: agile come un levriero, 
tenace come il pellame, e qualche volta dura come l’acciaio.
Tre punti di vista su Gerda e Bob ma che finiscono con l’essere le autobiografie 
di Willy, Ruth, Georg. Da queste emergono eventi storici che Janeczek ha fatto 
bene a rispolverare, come i fatti del lago di Braies che vide prigionieri dei 
nazisti giustiziati e gettati nel lago. In quell’albergo sulla riva passò anche 
il presidente francese Léon Blum. Una pagina di storia che non conoscevo e sono 
certo che la prossima volta che tornerò a Braies guarderò il lago con un altro 
occhio. E non poteva mancare un accenno alla celebre foto del miliziano spagnolo 
caduto in battaglia a Cordova nel 1936. La controversia sulla paternità e 
sull’autenticità è ancora aperta. Era di Capa o di Gerda? O di nessuno dei due?
Ho trovato di difficile lettura La ragazza 
con la Leica, 
a tratti anche noioso. Certo fornisce molti stimoli di approfondimento, se uno 
volesse, ma come ho già detto, senza una visione precisa a priori risulta 
soltanto un mosaico che non ha tutte le tessere al posto giusto e in grado di 
fornire un quadro unitario della vita di Gerda Taro.
“Oggi nessuno sa più chi era Gerda Taro. Si è persa traccia persino del suo 
lavoro fotografico, perché Gerda era una compagna, una donna coraggiosa e 
libera, molto bella e molto libera, diciamo libera sotto ogni aspetto”. Così 
conclude Georg Kuritzkes il suo ricordo.
 
      PUBLISHERSWEEKLY
 PUBLISHERSWEEKLY
The Girl with the Leica
Helena Janeczek, trans. from the Italian by Ann Goldstein. Europa, $18 trade 
paper (364p) ISBN 978-1-60945-547-7
Janeczek creatively and seamlessly spotlights war photographer Gerda Pohorylle, 
known professionally as Gerda Taro, in this fictionalized account of her life. 
Gerda’s short life (1910–1937) is chronicled from the viewpoint of the friends 
who knew her best; she was half of the alias Robert Capa, the photographer team 
of Gerda and her lover André Friedmann. While living in Buffalo, doctor Willy 
Chardack reminisces about Gerda when he receives a call in 1960 from another 
former lover, Georg Kuritzkes. Willy, known as “the Dachshund,” spent time with 
Gerda in pre-WWII Paris, where he continued his university studies while Gerda 
learned how to use a camera and supported the antifascist cause. Ruth Cerf 
highlights her friendship with the effervescent Gerda, who was thrilled as her 
photography career began to take off in 1930s Paris. Yet tragically, Gerda’s 
quest to rush into danger to photograph military action led to her death during 
the Spanish Civil War. Kuritzkes also remembers Gerda, the woman he once loved 
and who challenged him intellectually. Janeczek details the political unrest in 
pre-WWII Europe while instilling her novel with the indelible mark of Gerda’s 
presence and photographic genius. Fans of historical fiction featuring strong, 
forward-thinking female characters will be enthralled. (Oct.)

Jamie Mackay
This is a daring attempt to capture the life of Gerda 
Taro, the war photographer often overlooked as Robert Capa’s muse
A woman basks in the summer light, her head cocked lazily against a chair. Next 
to her sits a man, a rifle in his hand, his teeth bared in an affectionate grin. 
This is Barcelona in 1936, and the pair are republican fighters in the Spanish 
civil war. The picture was taken by the legendary photographer Robert Capa, a 
pseudonym invented by the Hungarian Endré Friedmann and German-born Gerta 
Pohorylle for their war reportage. Like the couple in the photo, the two parts 
of that journalistic alias were lovers who shared a profound antifascist 
commitment. And yet, Pohorylle, who renamed herself Gerda Taro, has often been 
seen as an apprentice, a background figure and muse to her male counterpart. 
Helena Janeczek’s latest novel, The Girl With the Leica, which won 
Italy’s Premio Strega in 2018, sets out to address this imbalance. Starting from 
this image, she goes on to valorise Pohorylle’s achievements, both as Capa and 
under her own pseudonym, linking her struggles and sacrifices to those of other 
women who have been unjustly forgotten by history.
In a book so concerned with female agency, it’s perhaps surprising that the lead 
character is denied the opportunity to narrate her own story. Instead, Janeczek 
pieces together a picture of her subject, who died in Spain in 1937, through 
imagined testimonies of real-life friends and lovers. Georg Kuritzkes, a 
communist fighter, marvels at her “shameless pragmatism” and “brilliance at 
hiding uncertainties”. Ruth Cerf, a friend and roommate, presents her as an 
“incarnation of elegance, femininity, coquetterie” while hypothesising that “she 
reasons, feels, and acts like a man”. The love-smitten Willy Chardack complains 
that Taro was “never a girl to long through a window”, and “much too serious”. 
Together these fragments serve less as a eulogy than a shattered portrait, one 
which muddles as much as it illuminates the central figure.
Janeczek avoids long “photographic” descriptions of light and shadow and 
crumbling buildings, instead prioritising voice, dialogue and interior 
monologue, the very things images are often hard-pressed to communicate. Place 
itself is hollowed out, an assemblage of background impressions at best. One 
moment the action is in Barcelona, next in Paris, then Rome, then Belgrade. This 
is a world of stateless individuals. Historical periods are likewise cut and 
pasted, with the siege of Madrid, the Italian resistance and the German 
anti-Nazi movement overlapping in a kind of collage. Ann Goldstein has worked 
admirably to render all this in English, but the strain of perpetual movement 
lends the text a rougher edge than some of her other translations.
While the novel can be disorienting, Janeczek’s style arguably makes sense as a 
reflection of her protagonist’s chaotic, peripatetic nature. Taro, we’re told, 
was a woman obsessed by “transitions, phases, chapters” and “the urgency of 
turning the page”. If the attempt to represent these tendencies frequently comes 
at the expense of narrative flow, the novel as a whole is a daring attempt to 
capture the life of a revolutionary woman whose commitment to freedom held firm 
against the dogmas of her time.
The Girl With the Leica by Helena Janeczek and translated by Ann Goldstein is 
published by Europa Editions (£13.99). 
LAVANGUARDIA
Paula Boira 
i Nacher.
Barcelona, 9 
mar (EFE).- 
La 
fotoperiodista Gerda Taro creó la marca Robert Capa en 1936 para vender mejor 
las fotografías que hacía con su compañero André Friedman (seudónimo de Capa) a 
los diarios de la época, pero, tras la prematura muerte de Taro, su legado fue 
"absorbido" por el fotógrafo, advierte la escritora Helena Janeczek.
Tras 
estallar la Guerra Civil, ambos reporteros se trasladaron a España para 
inmortalizar el conflicto bajo el sello Robert Capa, captando imágenes tan 
icónicas como "Muerte de un miliciano", tradicionalmente atribuida al componente 
masculino del tándem fotográfico y hoy de autoría discutida.
Tristemente, 
ella moriría en un hospital de El Escorial (Madrid), un año después de tomar 
dicha instantánea, tras ser herida en una batalla cerca de Brunete (Madrid).
Con el paso 
de los años, el seudónimo Robert Capa, adoptado por Friedman durante toda su 
carrera profesional, se convertirá en uno de los nombres de fotoperiodistas más 
conocidos de la historia.
Esta es solo 
parte de la memoria que Helena Janeczek rescata en "La chica de la Leica" 
(Tusquets), novela sobre la corresponsal gráfica de guerra Gerda Taro, 
originalmente Gerda Pohorylle (Stuttgart, Alemania, 1910 - El Escorial, Madrid, 
1937).
En una 
entrevista con Efe, Janeczek ha señalado que "es necesario recordar que Taro era 
igual o más conocida que quien era su pareja por aquel entonces", una certeza 
que se demostró en su multitudinario funeral, en el que más de 100.000 personas 
y grandes personajes de la cultura, como Pablo Neruda, le rindieron homenaje.
Ciertamente, 
son numerosos los casos en los que el trabajo de mujeres brillantes se acaba 
atribuyendo a sus compañeros, maestros o hombres más próximos, en general.
En esta 
línea, conocer a Gerda no fue fácil para Helena Janeczek, quien, pese a haber 
utilizado las fotografías y biografía de Capa para la redacción de su libro 
previo, no tenía muy clara la función de la fotógrafa dentro de la ecuación.
Fue en 2009, 
en la primera reposición de la obra de Taro, celebrada en Milán, donde la 
escritora alcanzó a comprender la importancia que aquella descendiente de una 
familia judía polaca que huyó de los nazis a París con solo 20 años tenía en la 
construcción del mito fotográfico más grande del siglo XX.
A Janeczek 
no solo le interesó el trabajo de la fotógrafa, sino dos similitudes vitales que 
comparte con ella: sus raíces judío-polacas y la situación de crisis y auge de 
la ultraderecha que vivió la Europa de entreguerras y que también se respira 
actualmente.
"Gerda Taro 
y las mujeres que defendieron la democracia durante la Guerra Civil española se 
decepcionarían al ver el fortalecimiento que el nacionalismo reaccionario vive 
hoy en España, de la mano de partidos como Vox", asegura tajantemente la autora.
"No puedo 
dejar de desconcertarme ante el clima político que se filtra en las pantallas de 
televisión mientras espero a realizar otra entrevista, el cual me recuerda 
demasiado a la época sobre la que hablo en este libro, aquella previa a la 
Segunda Guerra Mundial", ha sentenciado Janeczek.
Frente a 
estas realidades hostiles, la escritora reconoce que son necesarias figuras 
luminosas como la de Taro, a la que define como "un motor que encendía las vidas 
de los demás".
"Era una 
mujer realmente fuera de los esquemas, que conseguía unir orgánicamente 
características que parecen contradictorias si se encuentran dentro de un mismo 
género", ha explicado. "Ella era una de esas mujeres libres y resistentes que no 
le gustan nada a Vox", bromea.
Ahora, 
Helena Janeczek rescata la figura de la invisible Gerda Taro y la alza como 
pionera del fotoperiodismo a través de las memorias reconstruidas de tres de sus 
amigos: William Chardack, Ruth Cerf y Georg Kuritzkes.
Gerda, como 
cualquiera dispuesto a arriesgar su vida en el epicentro de la guerra, era 
valiente y "un metro y medio de orgullo y ambición", como explica el libro, que 
a través de sus personajes muestra a una joven que "nunca parecía preocupada".
Cuando 
hablaba de sus viajes a Berlín, donde los enfrentamientos eran una constante, o 
cuando anunció que se marchaba sola a España, sus amigos se deshicieron en 
recomendaciones, explican las páginas de "La chica de la Leica".
"Ya os 
gustaría a vosotros tener la cabeza tan en su sitio como la mía", les respondía 
ella.    EFE
1 de enero de 1937. Era domingo. Debería haber sido un día de fiesta para Gerda Taro, un día para celebrar su 27 cumpleaños. Sin embargo, la muerte se impuso a la vida y lo que se celebró ese día fue su funeral. Al sepelio acudieron miles de personas que cruzaron París acompañando el féretro hasta el cementerio Père-Lachaise, donde lo esperaban Giacometti, Louis Aragon, Cartier-Bresson y otros muchos intelectuales que lloraban la pérdida de la fotógrafa. Desolado y a punto de derrumbarse, Robert Capa le daba su último adiós y quizás, en silencio, le agradecía que lo hubiera inventado.
Gerda Taro (Stuttgart, 1910-El Escorial, 1937), en realidad Gerta Pohorlylle, era valiente. Era libre. Era atrevida. Era una mujer resplandeciente que iluminaba cada lugar que pisaba. Helena Janeczek (Munich, 1964) nos acerca su vida en La chica de la Leica, una novela que bien podría ser un ensayo por el rigor y el cuidadoso proceso de documentación que la autora ha llevado a cabo. La vida de Taro se narra a través de la memoria de tres personajes reales muy próximos a ella: Georg Kuritzkes, médico y combatiente en las Brigadas Internacionales; William Chardack, también médico y amigo de juventud; y Ruth Cerf, amiga íntima con quien compartió habitación en París. Los tres recuerdan y cada uno de ellos nos habla de una parte de la vida de Taro: desde su juventud de estudiantes en Leipzig, su activismo antifascista y su llegada a París hasta el funeral de Taro, su presencia en el frente republicano y el fatal accidente que la llevó a la muerte en Brunete al ser atropellada por un tanque. Y en el centro de todo, Robert Capa.
Robert Capa fue un húngaro pícaro y vividor que enamoró a Taro y se enamoró de ella. Pero también fue una invención, una gamberrada de Taro para sobrevivir como fotógrafos en el París de entreguerras. Janeczek relata como André Friedmann —ese era su verdadero nombre— contagió a la alemana el veneno de la fotografía, le enseñó a mirar y a procesar la película para revelar las instantáneas. Y ella, a cambio, le regaló el éxito: inventó un seudónimo —Capa en húngaro significa tiburón— que permitiera vender las fotos de los dos bajo la figura escurridiza de un valoradísimo fotógrafo norteamericano. La cotización de sus fotos triplicó lo habitual y el trabajo, de repente, no les faltó. Los dos operaron bajo ese nombre, pero tras la prematura muerte de la fotógrafa las fotos se atribuyeron casi por completo a él, a pesar de que nunca estuvo clara la autoría de muchas de ellas. Friedmann siguió firmando sus trabajos como Robert Capa y obtuvo el reconocimiento mundial hasta que una mina acabó con su vida en Vietnam en 1954.
Además de esas tres voces, la novela cuenta con un prólogo y un epílogo que completan la historia de algunos de los personajes que aparecen, la huida de Capa a América, donde Pablo Neruda tuvo una gran importancia, y la historia de las fotos de «la maleta mexicana»: Janeczek reconstruye como Csiki Weisz, uno de los colaboradores de Capa en el laboratorio, salvó los negativos de las fotos tomadas en el frente y los metió, clasificados y ordenados, en tres cajas de colores que hizo llegar al consulado mexicano. Sin su decisión, ese testimonio se habría perdido.
Con una prosa exigente que requiere la implicación del lector para ordenar la información y rellenar algunos huecos, Helena Janeczek ha armado una novela distinguida con el prestigioso Premio Strega en 2018: es la primera mujer en ganarlo desde que hace 15 años lo hiciera Melania Mazzucco. Este premio sólo ha reconocido a diez mujeres en sus 71 años de historia. La chica de la Leica repara así una injusticia que realmente son dos: Gerda Taro ha pasado a la historia como la novia de Robert Capa, su musa, su inspiración. En realidad, Robert Capa era ella tanto como lo era Friedmann. Cuando murió, el húngaro declaró: «Yo la he perdido, pero hay algo peor: la ha perdido el mundo». Por suerte, Janeczek la recupera y la reivindica, la devuelve al lugar que le corresponde, hace que el mundo la pierda un poco menos.
EVA COSCULLUELA