16-12-2000

 

TRILUSSA

(1871 - 1950)

   

 

Trilussa è il poeta romano Carlo Alberto Salustri, il quale scelse questo pseudonimo da un anagramma del proprio cognome. È autore di un gran numero di poesie in dialetto romanesco, alcune delle quali in forma di sonetti.

Dopo la pubblicazione dei versi belliani, verso la fine del 19º secolo diversi poeti romani avevano cominciato a scrivere in dialetto. 

Lungi dall'essere un intellettuale - Trilussa non aveva brillato negli studi - fonte della sua ispirazione erano le strade di Roma, assai più che i libri.

Quando un giornale locale gli pubblicò i primi versi, questi conobbero presto il consenso dei lettori e furono in seguito pubblicati nella prima delle sue molte raccolte di poesie.

La sua fama crebbe, e tra il 1920 e il 1930 la sua notorietà raggiunse il culmine; tuttavia non frequentò mai i circoli letterari, ai quali continuava a preferire le osterie. 

Negli anni successivi, però, la struttura sociale della città doveva cambiare profondamente; l'ispirazione che il poeta traeva così intimamente dalle vecchie atmosfere romane era destinata pian piano ad abbandonarlo. I suoi anni migliori giungevano così al termine.

Eppure, a soli pochi giorni dalla sua morte, gli veniva riconosciuto il titolo di senatore a vita per alti meriti in campo letterario e artistico: "Siamo ricchi!" fu il suo ironico commento alla vecchia governante nell'apprendere la notizia, ben sapendo che tale titolo non era molto più che una carica onorifica. 

Circa 80 anni prima, Belli era stato ispirato dal netto contrasto fra le classi sociali più alte e quelle più basse, e dalla lotta per l'essenziale che quest'ultime quotidianamente sostenevano; ma la Roma fin de siècle aveva ben altra struttura sociale: la piccola borghesia (dalla quale Trilussa stesso proveniva) era ora cresciuta, era la classe più rappresentata. Le sue poesie sono dunque popolate da tipici personaggi di un mondo piccolo-borghese (la casalinga, il commesso di negozio, la servetta, ecc.).

 

 

 

 

LISETTA CÓR SIGNORINO

 

Su, me faccia stirà la biancheria,

dia confidenza a chi je pare e piace:

nun me faccia inquietà, me lassi in pace:

la pianti, signorino, vada via...

 

Che straccio de vassallo, mamma mia!

No, levi quela mano, me dispiace,

se no lo scotto, abbadi so capace...

Dio, che forza che cià! Gesummaria!

 

Un bacio?.. È matto! No, che chiamo gente:

me lo vò da' pe' forza o per amore!

Eh! je l'ha fatta! Quanto è propotente!

 

Però... te n'è costata de fatica!

Dimme la verità, co' le signore

'sta resistenza nu' la trovi mica!

 

 

 

 

DISPIACERI AMOROSI

 

Lei, quanno lui je disse: -- Sai? te pianto... --

s'intese gelà er sangue ne le vene.

Povera fija! fece tante scene,

poi se buttò sul letto e sbottò un pianto.

 

-- Ah! -- diceva -- je vojo troppo bene!

Io che j'avrebbe dato tutto quanto!

Ma c'ho fatto che devo soffrì tanto?

No, nun posso arisiste a tante pene!

 

O lui o gnisuno!... -- E lì, tutto in un botto,

scense dar letto e, matta dar dolore,

corse a la loggia e se buttò de sotto.

 

Cascò de peso, longa, in mezzo ar vicolo...

E mò s'è innammorata der dottore

perché l'ha messa fòri de pericolo!

 

 

 

 

 

CARITA' CRISTIANA

 

Er Chirichetto d'una sacrestia

sfasciò l'ombrello su la groppa a un gatto

pe' castigallo d'una porcheria.

-- Che fai? - je strillò er Prete ner vedello

-- Ce vò un coraccio nero come er tuo

pe' menaje in quer modo... Poverello!...

-- Che? -- fece er Chirichetto -- er gatto è suo? --

Er Prete disse: -- No... ma è mio l'ombrello!-

 

 

 

 

 

FELICITA'

 

C'è un'ape che se posa

su un bottone de rosa:

lo succhia e se ne va...

Tutto sommato, la felicità

è una piccola cosa.

 

 

 

 

 

IRA

 

Lidia, ch'è nevrastenica, è capace

che quanno liticamo per un gnente

se dà li pugni in testa, espressamente

perché lo sa che questo me dispiace.

 

Io je dico: -- Sta' bona, amore mio,

che sennò te fai male, core santo... --

Ma lei però fa peggio, infino a tanto

che quarcheduno je ne do pur'io.