6-2-2016

 

Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato

 

 

O Cardeal Gianfrancesco Morosini nasceu em Veneza em 20 de Setembro de 1537, filho dos patrícios Pietro Morosini e Cornelia Corner. Ainda jovem acompanhou na ida a França um seu parente, Alvise Badoer, que tinha sido nomeado embaixador extraordinário naquele Reino por conta da Sereníssima. Em Junho de 1573, foi enviado junto de Henrique de Valois para o felicitar por conta da República de Veneza por ter obtido a coroa da Polónia. Em Dezembro do mesmo ano, foi nomeado Embaixador junto da Corte de Carlos IX, de França, onde ficou até à coroação de Henrique III. Foi depois Embaixador em Espanha. Foi Bailio em Constantinopla junto do sultão otomano até ao início de 1585. Foi então ordenado sacerdote em Veneza. Foi como núncio apostólico por alguns meses a França e em 23 de Setembro de 1585 foi escolhido para Bispo de Brescia. Em 15 de Julho de 1588, foi eleito Cardeal e enviado de novo em missão como legado a latere a França.  

No fim da vida, foi muito amigo de S. Filipe Néri e seu benfeitor.

Faleceu em, 10 de Janeiro de 1596, e está sepultado na Sé Valha de Brescia, junto do altar da Santa Cruz.

Transcreve-se a seguir a parte respeitante a Portugal quando se perdeu a nacionalidade e que faz parte da sua Relazione di Spagna – 1581.

 

Relazione di Spagna di  Giovanni Francesco Morosini. 1581 (o Gioan, o Giovan o Gianfrancesco)

 

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Mi resta ora, per espedirmi delle cose di Spagna, parlar del regno di Portogallo, il quale essendo stato nel tempo della mia legazione ridotto all'obbedienza del re Cattolico per forza d'arme, è cosa ragionevole ch'io ne dia alla S. V. particolar conto, se bene con ogni brevità.  

È posto il regno di Portogallo alle rive del mar Oceano nella Spagna verso ponente, e può esser di lunghezza intorno a 300 miglia e di larghezza 180, nel qual corpo si comprende anco il regno degli Algarvi. Da questo dipendono le Indie Orientali e alcune fortezze acquistate in Barberia, che sono Ceuta, Tanger, Arzilla e Mazagan. Non confina il regno di Portogallo per via di terra che con i regni di Castiglia, ed è posto in sito così opportuno e forte, che sebbene aveva un vicino molto potente, nondimeno con ogni piccola difesa si reputava assai sicuro.   

Questo regno soleva esser membro di Castiglia, o per dir meglio una parte di esso, perché di quello che al presente si nomina Portogallo ne era una parte posseduta dai Mori, quando Alfonso VI re di Castiglia lo diede con titolo di contado, in nome di dote, ad Enrico conte di Borgogna [1], col quale maritò una sua figliuola naturale nominata Teresa, per aver da lui ricevuto grande aiuto nelle guerre ch' egli aveva con Mori, e gli concesse il contado a condizione ch'egli avesse a riconoscere la superiorità del re di Castiglia, e l'obbligo d'andar alle corti nel regno di Leon sempre quando fosse chiamato, e servir con certo numero di lancie e di soldati in occasione di guerra, ch'era segno di vassallaggio.    

Ma crescendo di tempo in tempo la riputazione di questo conte e dei successori suoi, facendo nuovi acquisti contra Mori, e riuscendo nelle armi molto valorosi, incominciarono a negar d'andare alle corti, e di servir per obbligo con numero di gente nelle guerre; e attendendo alla propria grandezza ridussero, con autorità pontificia, il contado in nome di regno, e cominciarono a competer gagliardamente con il re di Castiglia, contro la volontà del quale era stato creato il nuovo regno.   

Con queste occasioni si diede principio alle molte guerre che in diversi tempi sono passate fra questi regni, e all'odio immortale che ha regnato, regna, e regnerà sempre fra Castigliani e Portoghesi. E sebbene Alfonso X procurò con maritar una sua figliuola con Alfonso III re di Portogallo, dandogli in dote le ragioni che aveva nel regno degli Algarvi, e liberando il genero e il nipote, che nacque dalla figliuola, dagli obblighi che avevano con Castiglia, levar con questo mezzo le passioni che regnavano fra questi regni, tuttavia operò poco, perché morto lui ritornarono alle prime discordie, essendo che i successori suoi non vollero ratificar quel lo che aveva fatto Alfonso X, e lo tennero per nullo, non v'essendo concorso il consenso delle corti. E ritornati di nuovo all'armi, hanno quasi di continuo guerreggiato insieme con diversa fortuna, restando superiore ora una ora l' altra nazione, senza però che l'una abbia mai potuto distruggere e soggiogar l'altra, finché stanche tutte due posero fine agl'incomodi della guerra ora con tregue ed ora con paci, conservando nondimeno sempre vive le passioni ed i rancori, se bene con diversi fini; perché i Portoghesi non pretendevano altro che conservar il loro e vivere con un re naturale, e i Castigliani per contrario hanno avuto sempre mira d'unir quel membro al resto del corpo, parendo a loro cosa sproporzionata che la testa della Spagna, che tale nella figura di tutta la provincia pare che sia Portogallo, fosse di un re e il resto del corpo d'un altro.

E però quando hanno veduto di non potere con la via delle armi conseguir il loro fine, hanno atteso a procurarlo per via di matrimoni, così dall'una come dall'altra parte; e per non raccontar le cose più antiche e lontane, per questo fine l'imperator Carlo V si maritò in Isabella figliuola di Emmanuele re di Portogallo, dalla quale nacque il presente re di Spagna, e da lei le sue ragioni per la successione in quel regno.   

Perché essendo morto in Barberia tre anni sono il re don Sebastiano senza figliuoli ne fratelli ne sorelle, successe nel regno Enrico cardinale (figliuolo di Emmanuele, e fratello della imperatrice madre del re Filippo e di don Giovanni avo di don Sebastiano), rimasto solo vivo di sei fratelli che erano; dei quali tutti non essendo restato alcun figliuolo maschio, salvo che don Antonio che nacque di Lodovico, ma bastardo (perché il padre era priore di S. Giovanni, e non aveva mai presa moglie), e dovendo ad Enrico succedere per diritto di legge e di natura il più propinquo maschio nato di legittimo matrimonio e del sangue del re Emmanuele, e constando che tutte queste condizioni competevano al re Cattolico più che a nessuno degli altri pretensori, determinò S. M. di non volere che per nessuna maniera le fosse da alcuno interrotta questa successione, e di ridurre il regno di  Portogallo a quella unione con Castiglia che tanto tempo era stata desiderata e procurata dai suoi maggiori. Ma considerando quanto meglio era terminar questo negozio pacificamente che con la forza, tentò tutte le vie possibili per far che il re don Enrico lo dichiarasse suo successore, e lasciasse il pensiero di maritarsi, come ad istanza de suoi popoli (che nessuna cosa più desideravano che conservarsi un re naturale) aveva determinato di fare; di che ne aveva già scritto a S. M. Cattolica, pregandola ad interponersi perché gli fosse data per moglie la sorella dell'imperatore che fu già regina di Francia, come io ho veduto dalle proprie lettere ch'egli scrisse di sua mano in questo proposito. Ma avendo risoluto il re di Spagna di non perder per qualsivoglia modo l'occasione d'unir sotto la sua obbedienza quel regno, non solo non volle favorir il desiderio del re Enrico, ma per via di Roma procurò con gran diligenza di far che il papa non gli concedesse la dispensa di potersi maritare, adducendo che sarebbe scandalo grandissimo in tutta la chiesa cattolica veder un vescovo consacrato maritarsi con poca o nessuna speranza di far figliuoli, essendo vecchio, impotente ed infermo. Ne contento di ciò, inviò in Portogallo un frate dell'ordine di S. Domenico, suo predicatore, nominato frate Ernardo del Castillo, valentissimo e santissimo uomo, il quale procurò, e per via di spirito e per ogn'altro verso, di levar questo pensiero dalla mente di don Enrico; nel che ebbe poca fatica, perché le infermità sue erano tali da persuaderlo più che tutte le altre ragioni che se gli potessero addurre.   

Tutte queste cose erano indirizzate al fine che ho detto, perché non era alcuno nel consiglio del re Cattolico che apertamente non gli dicesse ch' egli doveva in ogni modo procurar d'impadronirsi di quel regno, perché sarebbe riputata viltà se egli si lasciasse mancare così bella occasione. Ed a tanto era venuta questa pratica, che il suo medesimo confessore, e molti altri teologi che furono ricercati a dir il loro parere intorno a questo particolare, ponevano la cosa in punto di coscienza a S. M., dicendo che per beneficio universale di tutta la cristianità era obbligata a spuntarla; ne in altro discordavano i primi da questi ultimi, se non che quelli volevano usar di primo colpo la forza, anco vivendo il re don Enrico, e gli altri pensavano che fosse meglio tentar prima ogn'altra via che quella del le armi. Con i quali pareri si risolse il re di prepararsi per l'uno, e di non abbandonar l'altro; e però diede subito ordine che in Italia si facessero 9000 fanti e 6000 in Alemagna, che si levassero gli spagnoli vecchi di Napoli, di Sicilia e di Milano, e che con tutte le galere della sua armata, e molte provvisioni per la guerra, se ne venissero in Spagna, senza pubblicar quale fosse l'impresa che disegnava di tentare, anzi dando intenzione al papa e ai portoghesi ch' egli disegnava di mandar quelle forze contro gl'infedeli in Barberia. In Spagna ancora si fece levata di gente così da piedi come da cavallo, con dar ad intendere che il tutto fosse per il medesimo fine.   

Dall'altra parte inviò in Portogallo il duca di Ossuna con alcuni dottori e don Cristoforo di Mora con apparenza di voler informare quel re delle sue ragioni, ma sempre fuori di giudizio, perché pretendeva che, per esser principe assoluto che non riconosce superiore, nessuno potesse essere giudice suo, e che per giustificazione delle sue ragioni gli bastasse farle esaminare da teologi e dottori, come fece; dai quali essendo persuaso che le sue erano migliori di quelle degli altri pretensori, pareva a lui che gli convenisse farsi la ragione da se stesso per la via della forza, quando per altra non potesse.   

In secreto poi aveva dato ordine a tutti questi di tentar ogni via possibile di guadagnar l'animo del re don Enrico, e procurare che, per il beneficio stesso del suo regno, lo volesse dichiarare suo successore; per il qual effetto ebbero ordine di procurar con lusinghe, con promesse, con presenti, e anco con minacce, di tirar dalla sua parte tutti i più favoriti d'esso re, e tutti i principali del consiglio e del regno. In che ebbero così favorevole la fortuna, che fattisi padroni di questi, ridussero il re medesimo a contentarsi di far questa dichiarazione; sebbene quando vollero poi venir all'esecuzione ritrovarono così grande alterazione nelle corti, che fecero pentir quel povero re d'esser passato tant'oltre, temendo di non ricevere nella sua medesima persona qualche aggravio dai popoli.   

Per il qual successo, sebbene non mancarono i ministri del re di continuare nelle medesime diligenze di prima per guadagnar gli animi dei più principali, e specialmente di quelli ch'erano già stati nominati dal re don Enrico per giudici nella causa della successione, e per governatori in occasione della sua morte (attendendo ad offrire a tutti nel pubblico molte grazie e privilegi, e in particolare molti comodi e molte ricchezze), conobbero nondimeno che questa pratica non si sarebbe ridotta al fine da loro desiderato senza la forza; e però si attese di poi con maggior diligenza di prima a sollecitare le provvisioni necessarie per la guerra.   

Essendo le cose in questi termini, venne a morire il re don Enrico (31-1-1580), per la morte del quale parve che non si dovesse perder più tempo, tanto più che i ministri di S. M. che erano in Portogallo sollecitavano con ogni diligenza che non si perdesse l'occasione, promettendo al re che s'egli in persona s'avvicinava ai confini di Portogallo, non essendo quei popoli ne provvisti ne armati, ne avendo alcun modo di difendersi, senza aspettar di veder esercito formato contro di loro, si sarebbero subito volontariamente resi all'ubbidienza sua.   

Questa speranza fece risolvere S. M., sebbene contro il parere della maggior parte dei consiglieri, di mettersi in cammino per Guadalupe, con intenzione certa di non aver a passar più avanti; ma per dar mostra del contrario, fece giurare il principe suo figliuolo dalle corti di Castiglia, che stavano radunate per questa causa, e nominò il duca d'Alva, che tuttavia stava prigione in Uceda, per capo del suo esercito, e si pose in cammino con ferma speranza che, prima di giunger in quel luogo, i portoghesi si sarebbero contentati, vedendo che la cosa andava da vero, di ricever quei partiti ch'egli loro aveva mandati ad offrire

Ma riuscì la cosa in contrario, perché i portoghesi confidati nella loro naturale vanità, in cambio di sottomettersi all'obbedienza di S. M., ed accettar quei vantaggiosi partiti che loro erano offerti, mandarono ambasciatori a pregarla di volersi contentare che si vedesse per via di giustizia a chi apparteneva quella corona, mettendo tempo a muover le armi sino a tanto che questo fosse dichiarato, offrendosi di servirla come buoni vassalli quando la sentenza venisse in suo favore, e dicendo che, per il giuramento che avevano fatto, non potevano riceverla d'altra maniera, per loro re. Ma conoscendo S. M. che tutto questo era per metter tempo, e provvedersi meglio alla difesa, ed essendo risoluta di non voler assentir ad alcuna sorte di giudizio, ma di volersi in ogni modo mettere in possesso del regno, determinò, per dar vigore all'impresa, di passare a Badajoz, sperando tuttavia che, vedendo i portoghesi la risoluzione ferma e costante di S. M., si avessero ad umiliare; ma in questo cambio in arrivando a Badajoz ebbe nuova che don Antonio s'era alzato re con grandissimo applauso di tutto il popolo (giugno 1580).   

Per questo successo, sebbene entrasse il re in sospetto di poter aver nella conquista di quel regno maggiori difficoltà di quelle che prima pensava, conobbe anco che ciò avrebbe giovato più che nociuto al suo interesse; perché con questo pretesto veniva a giustificar più con il mondo la sua causa e la mozione delle armi, della quale facevano gran rumore non solo i portoghesi ma anco i ministri del papa, e a conquistar il regno per forza, che tanto voleva dire come farsi di quello assoluto signore senza obbligo di conceder ai popoli altre prerogative e privilegi, che quelli soli ch'egli per grazia speciale e propria benignità volesse loro concedere.   

Di più acquistò in suo favore la maggior parte di quelli ch'erano contrari a don Antonio, fra' quali fu il signor di Cascaes, che tenendo con il suddetto don Antonio particolar inimicizia, si dispose tutto al servizio di S. M. Cattolica, e fu istrumento principalissimo della presta conquista di quel regno,  e di metter in sicuro quella impresa, con ricordar il modo di condur l'esercito con l'armata per via di mare a Cascaes, che fu la salute di quel negozio; perché se andavano per via di terra, com'era la intenzione del duca d'Alva, consuma vano molto tempo, così per la lunghezza e difficoltà del cammino, come anco per gl'impedimenti che avrebbero ricevuto dai portoghesi; e se in questo mentre fosse arrivato a Lisbona il soccorso che si aspettava di Francia, si doveva temer con ragione che l'impresa non riuscisse così facile siccome è stata.   

Poco di poi la sollevazione di don Antonio, capitò in Spagna il cardinale Riario, inviato dal pontefice per legato suo, a fine, come padre comune e zelante del bene di tutta la cristianità, di mettersi di mezzo fra S. M. e i portoghesi per ovviar la guerra fra cristiani, ed avocare a se, come giudice supremo, la cognizione della causa, sperando che le parti non dovessero ricusare di rimetter a lei questo giudizio.    

Venuto il cardinale legato, cominciò a voler persuader il re Cattolico di rimetter nella Santità Sua le sue ragioni, allegando che non era Sua Maestà sicura in coscienza, ne dava al mondo soddisfazione di se con voler farsi ragione da se stessa; che il mezzo delle armi non era manco dannoso al vincitore che al vinto, spesso incerto e dubbio, e odioso sempre a Dio e al mondo; che per altra par te il pontefice l' amava molto, e desiderava la sua grandezza quanto mai l'avesse desiderata nessun altro pontefice; che il compiacerla era cosa da lui grandemente desiderata; e che nel merito della causa sentiva che de jure fossero le sue ragioni migliori di quelle degli altri pretendenti, ma che nel l'ordine gli pareva che S. M. fosse corsa un poco troppo a furia. Dall'altra parte con i portoghesi, per muoverli a questo fine, mostrava che Sua Santità, non solo per soddisfazione loro, ma anco per proprio interesse, non desiderasse altra cosa più che conservar in quel regno un re particolare, ch'era quello che sommamente desideravano i portoghesi; con i quali uffici sperava di ridurli non solo a farlo giudice, ma anco a rimettere in mano sua, come in sequestro, quel regno, e ridurre la differenza dalla via dell'armi a quella della ragione.   

Ma il re di Spagna resolutissimo più che mai di non perder per qualsivoglia cosa l'occasione di farsi padrone di quel regno, e di non voler rimettere ne confidar le sue ragioni in nessuno, trattenendo il legato con buone parole, attese a sollecitar il duca d'Alva che passasse innanzi con l'esercito, e attendesse a condur con ogni brevità a fine quel negozio, come in poco tempo successe. Perché sebbene avevano i portoghesi posti presidi in molti luoghi, tuttavia al solo apparir dell'esercito si rendevano, e finalmente il medesimo don Antonio, ch'era uscito in campagna fuori di Lisbona con più di 12.000 soldati accampati in sito molto forte ed avvantaggio so, fu dentro delle sue medesime trincere assalito e rotto, per virtù principalmente delle milizie italiane e di Prospero Colonna, uno dei loro capi, che in quell'occasione si segnalò di valoroso soldato non meno che di buono e prudente capitano. Con che restò presa Lisbona capo, di tutto il regno, e si diede fine a questa guerra [2]. Perché sebbene don Antonio abbia fatto di poi due altre volte capo, tuttavia nelle occasioni di combattere non mostrò mai la faccia, ma sempre procurò di salvarsi con la fuga, nella quale è stato così destro, che se nel combattere avesse avuto tanto talento, come nel fuggire e nascondersi ha avuto prudenza e giudizio, si può credere che la guerra non sarebbe così presto finita. Ma siccome non ha mai voluto vederla faccia dell'inimico armato, così ha sa puto tanto bene dissimularsi e nascondersi, che, per diligenze grandi che siano state fatte, non si è per molti mesi potuto ritrovare, e finalmente si fuggi in Inghilterra passando a tra verso tutto il regno; di che si attribuisce la causa principalmente alla singolar affezione che gli portano tutti quei popoli, i quali per salvar lui non hanno stimato di metter a pericolo le proprie vite.    

Questa impresa successa con tanta prosperità e felicità al re di Spagna, e stimata di grandissima importanza, è riuscita più tosto per la grandissima dappoccaggine dei portoghesi che per il valore dei castigliani; perché la vanità di quella nazione era tanta, che sebbene intendevano che il re Cattolico faceva molte preparazioni per la guerra, e che in persona s'era mosso per andar contro di loro, non fu però mai possibile che lo volessero credere, pensando che i castigliani li avessero per così valorosi e bravi, che non avrebbero mai avuto animo non solo di andar contra di loro, ma ne anco d'aspettar di vederli nella faccia.   

Di maniera che il primo errore che fecero fu di non si provvedere alla difesa, ma pascersi di bravate e di vento; che se avessero fatto quello che conveniva alla prudenza, non è dubbio che non solo avrebbero per molto tempo difeso il loro regno, come altre volte hanno fatto, ma forse anco messo in gran confusione il re Cattolico, perché se il negozio della guerra avesse continuato qualche mese più di quello che ha fatto, non è dubbio che l'esercito suo senz'altro da se stesso si sarebbe dissipato; perché oltre alla infermità ch'era entrata nel campo, per causa della quale ne morivano molti, s'aggiungeva che i soldati pativano anco tante altre difficoltà, che si sbandavano a tutte le ore; ne bastava a spaventarli il vederne impiccar ogni giorno qualcheduno per questa causa, perché volevano più tosto mettersi a pericolo di morir sopra una forca una sola volta, ch' esser certi di morir mille volte per le necessità che pativano stando nel campo, perché ne erano pagati, ne avevano di che vivere mancando le vettovaglie, e quelle poche della munizione essendo tristissime.   

Per questa vana presunzione, che di loro stessi avevano i portoghesi, non vollero mai dar orecchie alle offerte che per nome del re di Francia loro erano fatte d'inviar capitani e soldati per aiutarli a difendersi; ma in quel cambio domandavano denari e vettovaglie, dicendo che de' soldati e capitani ne avanzavano tanti in Portogallo, che avrebbero bastato per difendersi da tutto il mondo, con tutto che dall'esperienza si sia conosciuto il gran mancamento che avevano cosi degli uni come degli altri. Perché tutti confessano che se al tempo che sbarcò l'esercito di S. M. Cattolica a Cascaes, vi fosse stato un capitano di mediocre intelligenza con due soli mila soldati, e tre o quattro pezzi d'artiglieria, con far venti sole braccia di trincera, non era possibile di sbarcare; perché il luogo della disimbarcazione non era capace di più che due o tre battelli alla volta; aggiungendosi che in quel tempo il mare era turbato di maniera che con grandissima difficoltà potevano accostarsi i battelli a terra, restando spinti indietro dall' onde. E se avessero i portoghesi battuto quel luogo in modo che dall'una parte il mare, e dall'altra l'artiglieria avesse travagliato quelli che volevano sbarcare, si sarebbero per necessità ritirati alle galere; e nemmeno quelle si sarebbero potute fermare senza manifesto pericolo di perdersi, non essendo il luogo sicuro per il mare e ne meno passar più avanti restando la fortezza di Cascaes in mano del portoghesi, ed essendovi alcuni galeoni armati che impedivano la entrata nel porto; di maniera che per salvarsi convenivano ritornar indietro a Setúbal. E se una volta ricevevano questa sbarbazzata, difficilmente vi sarebbero più ritornati, tanto più che il duca d'Alva aveva più per consiglio d'altri, che per proprio parere, presa quella risoluzione, giudicata da lui assai più pericolosa che utile.   

Ma sebbene con tanta facilità potevano difendersi, non la seppe però conoscere don Giovanni di Meneses generale del regno, che si ritrovava in quel tempo a Cascaes, stimato il miglior uomo da guerra di tutto Portogallo, e che aveva seco più di sei mila soldati. Il quale, o che si fosse perso d'animo, o che non conoscesse il suo vantaggio, in cambio d'opporsi alla sbarcazione, si ritirò nel castello di Cascaes, la sciando ogni comodità di sbarcare all'inimico. Ne di poi mostrò maggior virtù; perché entrato nel castello, al primo apparire dell'esercito, senza pur aspettare un solo colpo d'artiglieria, si rese e pagò sopra una forca la pena della sua viltà, sebbene con poco onore del duca d'Alva, che diede quella sentenza stimata da tutti troppo severa per non dir ingiusta; non meritando una persona di sangue nobile e di carico principale così vituperosa morte per aver servito alla sua patria e al suo signore contro un re col quale non aveva ancora obbligo alcuno.   

L'altro errore che fecero i portoghesi fu, vedendosi sprovveduti d'aiuti e di modo da difendersi, non accettar i vantaggiosi partiti che loro erano offerti dal re Cattolico, che si contentava di riceverli all'ubbidienza con quelle medesime condizioni che loro avessero saputo domandare. Ma in effetto la causa del tutto non fu altro che la pazzia di quella nazione, che condusse anco quell'infelice re don Sebastiano alla morte in Africa, senza forze, senza denari e senza consiglio.   

Ma sia come si voglia, o che la pazzia dei portoghesi, o che la gran fortuna del re Cattolico l'abbia causato, si ritrova la M. S. padrona di quel regno, con il quale viene ad esser signore di tutta la Spagna, e si può dire di tutta la navigazione del mar Oceano con suo grandissimo comodo e riputazione, e grave danno de' francesi e inglesi, e de' suoi ribelli fiamminghi. Ha unito le Indie orientali con le occidentali, e si è impadronito d'una gran parte del mondo, con che non è dubbio che abbia grandemente accresciuta la sua potenza; sebbene, quanto all'entrate, queste non possono esser messe in gran considerazione, poiché d'ordinario non cavavano i re di Portogallo maggior entrata di quello ch'era la spesa ordinaria, e il re presente avrà maggior spesa degli altri, perché non essendo padrone della volontà dei popoli sarà astretto a tener molti presidi, oltre che la entrata sarà sminuita essendosi levate le gabelle che si cavavano cosi delle robe e mercanzie che si conducevano di Castiglia in Portogallo, come di quelle che di Portogallo si conducevano in Castiglia. Ma considerato il gran numero dei vassalli, che si fa conto che possano essere atti a combattere più di 60.000 a piedi e 10.000 a cavallo, la quantità del paese, delle terre, dei porti e delle fortezze, così in Portogallo come in Africa e nelle Indie, con le comodità che da ciò può cavare un principe potente come il re Cattolico, si può stimare un grandissimo acquisto, quando possa però acquietar l'umore di quei popoli, i quali sono al presente così mal disposti, che quando avessero da continuare molto tempo in questa maniera, si potrebbe dubitare di riceverne più tosto danno che comodo.   

Perché sebbene non ha al presente S. M. alcun contrario palese e manifesto in Portogallo, essendo padrona di tutte le città, ville, castelli, fortezze e porti, non è però padrona degl'animi, perché quelli che da principio gli sono stati contrari conservano tuttavia la loro mala volontà, e quelli che hanno tenuta la parte di S. M. sperando di ricever grandissimi premi, ora che non sono riconosciuti con quella larghezza che speravano, restano peggio soddisfatti che i primi; e forse senza colpa del re, perché se avesse la M. S. a soddisfare alle loro ingorde voglie e desideri, non basterebbe tutto Portogallo e Castiglia insieme a contentarli.   

Oltre di ciò, quello che più importa di tutto il resto per la quiete di S. M. Cattolica, è di ridurre alla sua ubbidienza le isole Terzere, le quali sole di tutto quello che dipende dal regno di Portogallo restano ribelle [3], e sono stimate di grandissima importanza per la navigazione delle Indie, essendo necessario che le flotte tutte che vanno e vengono capitino in quelle parti, così per ricever rinfrescamenti, come anco per prender il punto della navigazione; nelle quali se francesi o altri si fortificassero, impedirebbero la navigazione, e senza andar loro nell' Indie, potrebbero impadronirsi dell' oro, del l'argento, delle gioie e spezierie che vengono da quelle par ti; però non è dubbio che a primo tempo non sia S. M. per far ogni sforzo possibile per liberarsi da questo impedimento.   

Nelle Indie orientali non si crede che S. M. abbia ad avere alcun contrario, poiché il capitano della flotta ultimamente venuta s'è volontariamente andato a presentar a S. M., dicendo d'aver ordine dal governatore di esse Indie di ubbidire a chi sarà stato dichiarato re dai governatori del regno, siccome egli ancora voleva fare; di modo che, superata la difficoltà delle Terzere, resterà S. M. pacifico possessore di tutto il regno di Portogallo, sebbene sospettando di don Antonio non s'assicurerà senza buone fortezze e presidi [4].   

Da questi regni di Portogallo e dalle Indie, solevano cavar i re passati due milioni d'oro d'entrata all'anno, sebbene le spese erano tali che non solo consumavano tutta l'entrata, ma li tenevano anco sempre in grandi necessità. Ora le entrate sono sminuite e cresciuta la spesa; sono sminuite quelle, perché il re don Enrico quando entrò nel regno liberò i popoli del dazio del sale, e il re presente ha levato i porti secchi; e sono accresciute le spese per i presidi che si tengo no, e per le fortezze che si fabbricano. Però se le cose prendessero buon aspetto si potrebbe sperar che in qualche tempo ritornasse il tutto almeno nel primo essere; e per questo rispetto si crede che il re non sarebbe molto lontano dal perdonar a don Antonio e dargli modo di vivere per farlo star quieto e liberarsi da quel sospetto, sapendo quanto è ben voluto da tutti.   

Ho parlato un poco più lungamente di questo successo di Portogallo di quello ch'io pensavo, ma meno di certo di quello che ricercava una cosa tanto importante, e successa tutta in tempo della mia legazione; però procurerò compensar con la brevità del resto la lunghezza di questa parte.

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[1] Ciò fu nel 1095. Enrico era venuto di Francia in Spagna con molti cavalieri francesi a combattere per Alfonso VI contro i Mori.

[2] Filippo II fu proclamato a Lisbona re di Portogallo il 2 settembre 1580.

[3] Ivi si riparò don Antonio di Crato, e cogli aiuti di Francia e d'Inghilterra potè tenervisi fino al 1583. “

[4] Fatto sta, che dopo sessant'anni di un giogo mal tollerato, pervenne finalmente il Portogallo a rompere l'odiata unione, ne venti e più anni di guerra valsero poi a restituire la Spagna in quel dominio.

 

 

AVVERTIMENTO.

 

Matteo Zane fu eletto successore a Gioan Fr. Morosini con deliberazione del 6 ottobre 1580, e tornò dalla sua legazione sulla fine del 1583, come appare dalle cose ivi narrate, e specialmente da un luogo dove è detto che il re sollecitava a Roma il cappello per don Rodrigo di Castro arcivescovo di Siviglia, il quale fu appunto nominato cardinale nel concistoro del 12 dicembre 1583. Che dove pure voglia supporsi l'elezione del' di Castro non essere stata subito promulgata, onde potesse lo Zane per qualche tempo ignorarla, l'epoca della presente relazione non può per conto alcuno oltrepassar di molto il principio del 1584; e la data del 14 maggio, sotto la quale è registrata nell'apografo di cui si è servito il signor conte Greppi nei suoi estratti, è forse quella della sua esibizione in archivio anziché quella della lettura.

La Relazione discorre con molto senno politico intorno le contingenze generali d'Europa, che così strettamente si connettevano cogl'interessi di Filippo II; ragiona con qualche diffusione delle cose di Portogallo e dei Paesi Bassi; parla del progetto di un quinto matrimonio del re; e tocca di assai altri notevoli particolari, che la rendono quanto ogn'altra meritevole dell'attenzione dei nostri lettori. Nel tempo di questa legazione accaddero i seguenti fatti:

 

Gli stati generali delle Provincie Unite si separano solennemente dalla Spagna, e dichiarano Filippo II decaduto da ogni autorità (2 luglio 1581). Deferiscono poscia il protettorato dei Paesi Bassi a Francesco duca d'Anjou, fratello di Enrico III re di Francia, per insinuazione del principe d'Oranges, il quale, anziché temere di perdere con ciò l'arbitrato dell'unione, intendeva di rafforzarsi col contrapporre quel principe agli spagnoli nelle provincie del mezzogiorno. L'arciduca Mattias, riconoscendo in questo fatto la fine della sua effimera autorità, se ne ritorna in Germania (dicembre 1581 );

Riforma gregoriana del calendario decretata con bolla del 24 febbraio 1582;

Vano tentativo di don Antonio di Crato contro il Portogallo (luglio 1582); 

ll duca d'Anjou, non contento dell'autorità deferitagli, tenta colla forza d'impadronirsi in Anversa del potere assoluto; ma falli togli il tentativo, torna svergognato in Francia (giugno 1583).

Alessandro Farnese, usando la fortuna, rompe i francesi co mandati dal maresciallo Biron, e restituisce per alcun tempo il prestigio delle armi spagnole nelle Fiandre. 

 

Relazione di Spagna di Matteo Zane - 1584

 

Pretermessa una parte della solita descrizione degli stati di Filippo II, che nulla aggiunge d'importante a quanto intorno ad essi viene copiosamente discorso da molti precedenti ambasciatori, ne riportiamo quanto si riferisce al nuovo acquisto di Portogallo, e alla condizione delle Fiandre, seguitando poi integralmente la Relazione sino alla fine.

Il regno di Portogallo, situato nell'ultima parte di Spagna, si divide in due provincie, Portogallo e Algarve, ed è da farne gran conto per esser comodo ed attissimo a tutte le navigazioni, e oggidì è fatto assai più considerabile per esser aggiunto alla corona di Spagna. Apporta questo regno grandissima comodità al re, perché mediante esso viene ad unire tutta la Spagna, le Indie Orientali con le Occidentali, e a farsi padrone di tutte quelle navigazioni, aprendosi la strada ad imprese assai maggiori e più gloriose. Il clero è onestamente ricco, e vi sono tredici vescovati ed altri benefici tutti a disposizione del re; ma l'esser esso clero esente d'ogni gravezza, e temendo d'esser fatto soggetto come quello di Castiglia, è stato causa di renderlo tanto contrario al re Cattolico appunto come se fosse stato re Moro; a tal che i confessori e predicatori per zelo di religione movevano il popolo, e sì come gli animi de' portoghesi erano malissimo affetti verso gli spagnoli, così fu facile far tale impressione che non si potrà rimuoverla se non in progresso di tempo. Vi sono anco in Portogallo tre ordini di cavalieri come in Spagna con commende assai ricche, e più un ordine proprio di Portogallo detto di Cristo. Le commende sono tutte del re, eccetto quelle che appartengono al duca di Bragança. I signori sono: due duchi, un marchese, e dodici conti, tutti onestamente ricchi ma con poca giurisdizione. Il popolo non è molto, per ché fuor di Lisbona il resto è poco abitato, e n'è causa la copia delle genti ch' esce per l'India, delle quali poche ritornano, o sia per la lontananza, o pure perché facilmente gli uomini s'accomodano al meglio. Fra il popolo si contano i discendenti di ebrei fatti cristiani, dei quali quel regno è pieno, e che diciamo noi Marrani. Questi son molto soggetti all'ufficio dell'inquisizione, che li castiga d'ordinario nella roba, e con ragione, perché nelle mani di questi stan le maggiori ricchezze di Portogallo. E nelle ultime corti che si tennero in quel regno, fu S. M. ricercata che fosse ordinato per decreto che quei tali fossero per sempre esclusi da ogni beneficio ecclesiastico e secolare; e speravano al sicuro d'ottenerlo, perché costoro fecero la guerra al re Cattolico in Portogallo, servendo con le facoltà e con le persone a don Antonio, e gliela fanno anco ora servendo di spie e con denari. Ma S. M. non volle assentire, sperando con la benignità di poterli ridurre all'obbedienza meglio che con la severità che contro d'essi usavano i re passati di Portogallo; e spera per ventura che questi tali le abbiano a servire in qualche tempo di contrappeso, contro la nobiltà, che le è inimicissima. Per ordinario in Portogallo vi è carestia, poiché il paese non produce vivere per tre mesi, ma di Castiglia ne vien somministrata qualche parte, e per via di mare si supplisce alle loro necessità, perché di Francia, Germania, e sin di Svezia è Danzica, vengono portati frumenti è viveri; ed all'incontro estraggono spezierie e sali, de' quali quel regno abbonda. Vi è anco gran mancamento di denari perché non hanno miniere; ma ora che vi si tiene tanto presidio, si fabbricano fortezze, e si mandano fuori armate, il denaro corre assai, e il popolo di Lisbona arricchisce. Ma è così male affetto verso i castigliani, che non confesserà mai ne questo ne altro benefizio che gliene risulti.

La sicurtà, che può avere S. M. da quel regno, non dipende già dall'animo dei Portoghesi, che son tutti mal intenzionati, ma dal non aver essi capo per guidar un'impresa, ne uomini, ne armi, ne viveri, ne capacità per far riuscir cosa importante. Il clero è mal affetto; ma S. M. se n'è in parte assicurata con aver cacciati molti capi di frati ed altri religiosi, o fattili secretamente affogar nel porto. E Sua Santità, coll'aver concessa per due anni la legazione al cardinale arciduca nipote di S. M. viene ad averla assicurata affatto, perché l'autorità ecclesiastica e secolare viene indifferentemente ad esser in mano del re e dipender da esso, e se ne può servir come più gli piace; onde questa legazione viene ad assicurarlo da tutti. La nobiltà di Portogallo pretende tutta d'esser benemerita del re, alcuni perché, avendo lasciato di seguire le parti di don Antonio e di Bragança, sono andati volontariamente a riconoscer ed obbedir la sua giustizia; altri per esser stati sempre neutrali, e molti per aver seguita la parte di S. M. Gli ambasciatori della quale, nell' interregno, diedero più di 300 cedole firmate di mano del re con diverse promesse a tutti in generale et etiam in particolare, alle quali S. M. ha detto di soddisfare parte con effetti e parte con promesse de' maggiori benefici; ma non sono già restati contenti, perché a soddisfare alle voglie e pretensioni loro non sarebbero bastati tre regni di Portogallo. Il popolo dovrebbe il re in parte averselo concitato favorevole con avervi introdotto la giustizia, la quale nei tempi passati non è stata mai per loro, poiché la nobiltà teneva tutti per soggetti come schiavi negri. Ma mentre don Antonio avrà vita, non potrà mai lasciar quel popolo di averlo in onore, e il re di non dubitar di qualche alterazione di quel regno, perché egli è il solo maschio discendente della casa reale di Portogallo, se ben bastardo; ma altre volte i bastardi maschi sono stati anteposti alle donne legittime nella successione alla corona. E esso don Antonio è dotato di quelle virtù popolari che son proprie ed attissime ad acquistar la volontà di tutti, che sono l'umanità, l'affabilità e la liberalità; e queste virtù sono veramente sue proprie.

Per la difesa del regno, il re ha fabbricato due fortezze, l'una alla bocca del porto di Lisbona, dove sono al cune secche che fan canale; questa soleva essere una torre, c S. M. l'ha fatta cingere di baluardi, e per la parte di mare è assai forte, ma da terra è battuta da un colle che le sta vicino. L'altra fortezza è all'entrata del porto di Setúbal, posta in un alto che non guarda il porto ne batte la terra. È quello un porto bellissimo caricatore di sali; la fortezza è in forma di cinque punte in cambio di cinque baluardi; è molto piccola, come è anco quella di Lisbona, sì che in tempo de' maggiori bisogni 200 fanti basteranno a guardar ciascuna di esse. L'ingegnere è stato il Fratina milanese assai favorito da S. M., e che ha guadagnato la sua grazia con due mezzi, la prestezza e il risparmio. Io non le ho vedute. Per compita sicurtà di quel regno sarebbe necessario quello che men conviene a S. M., ch'essa vi si fermasse alquanti anni per provar con la presenza di guadagnar gli animi di quei popoli, ma questo sarebbe abbandonar quasi gli altri suoi stati, come la M. S. mi disse un giorno in Portogallo.

L'entrate del regno ascendono ad un milione in circa, ma si trovano quasi tutte impegnate per debiti contratti dal re don Sebastiano, onde al presente S. M. ne cava poco. Ha ben ella speso grandemente in quella guerra, e nell'impresa della Terzera, ed ha lasciato in Lisbona un deposito di un milione per occorrenze che d'improvviso potessero nascere, oltra di che ha speso finora in fabbriche di fortezze, presidi, armate per guardar quelle coste, e ministri, intorno a un milione l'anno. Dicono ben alcuni che in breve S. M. potrà accrescere molto quelle entrate, poiché i popoli non sono punto aggravati se non del dazio di 25 per cento delle robe forestiere che entrano nel regno. Il qual dazio se bene pagato dai forestieri, viene però a particolar maleficio dei sudditi; ma S. M. lo manterrà per provvedere alla difesa di quel regno senza tanto suo interesse. E il pretesto sarebbe giusto, se ben contrario ai privilegi di quel regno giurati da S. M. nelle corti; ma essa pretende goder del beneficio dei regni conquistati, e per tale tiene questo, e così vuol che si dica, più tosto che ereditato, perché cosi se le accresce l'autorità e la gloria, mentre all'incontro le scemeria l'una e l'altra.

Gli spagnoli non hanno avuto molto per bene che sia mancata la propria linea del re di Portogallo, perché quello era un rifugio in occasione di bandi e contumacie loro, onde converranno ora ritirarsi in Francia per lo più; e dicono che meglio sarebbe stato conservar quel regno, che era per se stesso debole e quasi soggetto, che impadronirsene, massime che S. M. difficilmente potrà esser padrona della volontà dei sud diti, e non si sarebbe essa concitato l'odio degli altri principi cristiani per aver accresciuto tanto il suo impero. Ma dovendo quel regno cader in altri per mancamento di re proprio, non poteva S. M. far di meno di non se ne impadronire, avendovi massimamente tanta ragione per consanguineità e per confine. Considerano ancora che il re avventurò molto nella guerra navale seguita nel 1582 all'isola di San Michele, perché è stato miracolo che 28 navi abbiano combattute e fugate 60 francesi, benché se non si prendeva la nave capitana con lo Strozzi e quegli altri principali [1], non si sarebbe manco contata per vittoria; la quale poi sarebbe stata segnalatissima se don Antonio non si fosse fuggito la quinta volta; e in questo del fuggire pare che consista la sua fortuna. Ma se avesse Dio permesso che le 28 navi fossero state le prese, e le 60 le vincitrici, come poteva esser facilmente, e i francesi si fossero voltati a Portogallo, l'avrebbero ritrovato molto sprovveduto e debole, ed alla fama sola della vittoria o al comparir dell'armata si sarebbero tutti levati, ne bramavano altra occasione che questa. E il re, prevedendo quasi una fortuna di questa sorte, faceva star una galea con il ferro a picco innanzi al suo palazzo reale, ed i cavalli da posta all'ordine per ritirarsi in sicuro al primo motivo dei nemici. E quanto questa ritirata sarebbe stata pericolosa si può giudicare, perché i regni si mantengono più con la riputazione ed autorità che con la forza. Il duca d'Alva, che conosceva e stimava il pericolo, mandò ad avvertire S. M. che conveniva alla dignità sua e alla sicurtà dei suoi regni non avventurar la sua persona, e lo consigliava a ritirarsi prima che il pericolo fosse vicino. Il re prese a male il consiglio, e l'interpretò che il duca ambisse restar solo al governo; però gli mandò a dire per un segretario, che lo ringraziava dell'avviso, ma che se esso se n'andasse, egli non resterebbe; che fa puntura grande per il duca. Ma Dio non permise che seguisse tanto male.

Se quel medesimo rispetto degli antichi privilegi, onde i popoli della contea di Borgogna si mantengono devotissimi di S. M. Cattolica, si fosse avuto alla Fiandra esposta a vicini potenti, come francesi, tedeschi ed anco, inglesi, se ben v'è un braccio di mare che da questi ultimi la separa, coi quali tutti ha pur qualche conformità, non sarebbero le cose di là ridotte nel termine in che si ritrovano. Il che, tanto più si doveva considerare quanto che, essendo i popoli vicini infetti d'eresia, era facile il prevedere che, per il continuo con tatto e commercio, anche la Fiandra sarebbe facilmente caduta nel medesimo errore. E come che nessu

na peste, nessun fuoco sia più inestinguibile di questo, così è ufficio dei prudenti principi il preveder di lontano e l'essere solleciti ad estirpare e tagliar le prime radici, che è solo rimedio in questo caso. A questo si aggiungono le continue gravezze di cui si andarono caricando quei popoli, la poca stima che il re venne a far della nobiltà scemandole i privilegi, e la diffidenza che mostrò del popolo fabbricandovi fortezze con presidi spagnoli, e sottomettendoli a persone diffidenti, com'era il cardinal di Granvela, che si trovava là a quel tempo con madama di Parma quando cominciarono ad apparir i semi della ribellione ecclesiastica e secolare, che van sempre l'una dietro l'altra. Fu levato il cardinale e restò madama, che non bastò con la destrezza e piacevolezza a moderar sì gran moto, E allora si dispose S. M. a mandarvi il duca d'Alva armato, il quale incominciò ad esercitar la severità castigando coll'ultimo supplizio non pure i peccati di commissione, ma di omissione ancora, come dicono del conte d'Egmont e d'altri; e, per non far tutta la guerra a spese del re, pensò di porre alcune imposizioni che furono occasione della totale ruina. Rivocato il duca d'Alva, vi andò il commendator maggiore Requenses, che usò termini in tutto differenti; e morto lui, vi andò il sig. don Giovanni, il quale procurò di camminar per il medesimo sentiero, devenendo a quelle capitolazioni di pace che son note; ma non bastò per ammorzare cosi gran fuoco. Vi andò poi il principe di Parma, il quale, all'infuori dell'ultima fazione di Donkerque, si può dire che abbia fatto la guerra piuttosto difensiva che altrimenti.

Le cause perché il principe di Parma non abbia potuto fare maggior progresso sono manifeste, perché non si poteva interamente fidare ne dell'esercito ne del consiglio ne del paese amico, e gli bisognava lasciar sempre le piazze ben presidiate rispetto agl' inimici di fuori e ai popoli di dentro, onde non poté mai aver in campagna più di dieci mila fanti mentre avrebbe avuto bisogno di averne venti mila. Non si poteva fidar dell'esercito, perché era in buona parte di valloni, che son popoli di Fiandra e valorosi, ma che combattevano mal volentieri contra la propria nazione; e di più essendo, come gli altri soldati, mal pagati, facevano fa zione di mala voglia, perché il denaro è stato sempre somministrato al principe fuori di tempo, dal che ne veniva al re maggior interesse e manco servizio. Del consiglio non poteva fidarsi perché vi entrano quei signori fiamminghi che si domandano i malcontenti, e questo nome solo basta per diffidar di loro; e pur S. M. vuole che i carichi principali stiano nelle loro mani. Non si poteva fidare del paese, essendo per se stesso mal affetto, ed aggravato poi dall'aver la guerra in casa e fuori con infiniti danni per ogni parte. Ha poi por tato la sorte che questa ribellione abbia avuto per capo fortunatissimo il principe d'Oranges, il quale, senza aver, si può dire, mai cinta spada, ha potuto far guerra continua venti anni col re di Spagna suo signore naturale. Ne è dubbio che la sua morte avrebbe in gran parte rimosso i sudditi dalla ribellione, ma non è bastato il tentarlo [2], sì come non è bastato per ridurlo a composizione la prigionia di suo figliuolo che si trova in Spagna [3], ne il proporgli uno stato in Germania a sua maggior sicurtà, ed altra mercede, ch'esso ha voluto proseguir nella ribellione. E il modo ch'esso ha tenuto in questo è stato, quando col chiamar in aiuto l'arciduca Mattias e gli alemanni, quando Alanson con i francesi, e alcune volte si è valso del pretesto della falsa religione, altre della vera cattolica, e spesso trattando di accordo e di pace. Ma in effetto abborriva tutto, perché di Mattias e degli alemanni si voleva servire per metter alle mani la casa d'Austria con Spagna, massime col pretesto che possono avere l'imperatore e i suoi fratelli sopra i Paesi Bassi. E fa vedendo non riuscirgli questo pensiero che si rivolse al duca d'Alan son [4] ed ai francesi con intenzione, non di farsi a loro soggetto, ma di veder rottura tra Francia e Spagna, che era quello ch'esso pretendeva sopra tutto. Abbracciò la falsa religione per aver tanto più prontamente gli aiuti di Germania e d'Inghilterra; ne si scostò affatto dalla vera cattolica per non si tirare addosso una crociata. Dava di orecchie alla pace e all'accordo, non per concluderlo, ma per goder del beneficio del tempo. Ne altro principe cristiano sarebbe stato atto ad intromettersi nella negoziazione di pace, perché non si sarebbe potuta effettuare senza diminuzione della vera religione cattolica e dell'autorità del re, benché in questo si sarebbe potuto trovar temperamento, come anco, nella restituzione dei beni ecclesiastici e di molti particolari cattolici, ancor che sia materia difficile; com'è difficilissimo ancora il poter assicurar quei popoli che il re fosse per servar la fede, con tutto che l'imperatore e altri principi di Germania entrassero sicurtà.

Per superar tante difficoltà, e provar una volta di finirla guerra, sarebbe stato necessario che alle forze di terra si aggiungesse una potente armata di mare. Ma S. M. non se n'è mai risoluta, perché non teneva allora altro ch'un luogo di mare detto Gravelinga, che non è manco porto, e le secche e la marea rendono per là difficile la navigazione se non è fatta da' naturali del paese, che le sono contrari; però se n'è la M, S., astenuta. Il ministri del re già stanchi di provveder ai bisogni di quella guerra, ed avendo per gettati quanti denari vi si impiegano, avrebbero voluto un gran pezzo fa che. S. M. si fosse ritirata da quell'impresa, mostrandone l'impossibilità, e dicendo che non è giusto, per difender un membro, mandar a perdizione tutto il corpo; e le mettono innanzi come di Spagna si cavano da molti anni due milioni e mezzo l'anno, ancorché i passati anni, in tempo del duca d'Alva, se ne spendessero più di quattro; e d'ordinario il principe di Parma ha un assegnamento di 100,000 scudi il mese, che però non gli basta per la metà della spesa; e tutto questo denaro si cava di Spagna. Ma Sua Maestà non ha mai voluto abbandonar l'impresa conoscendo quello stato, situato in mezzo l'Europa, esser importantissimo non pur alla conservazione - ma alla sicurtà delle cose sue, potendo facilmente metter insieme da quelle bande un esercito d'alemanni, di valloni ed altri naturali fiamminghi, con i quali si può penetrar sino nelle viscere della Francia. Oltre che quel paese, rispetto ai traffichi, è ricchissimo più d'ogn'altro, e l'imperator Carlo ne cavò già grandissima quantità d'oro, tanto che soleva dire quelle esser le sue Indie. Con tutto ciò si risolse finalmente di attender solo alla guerra difensiva, e procurar di conservar le due provincie di Artois e Hainault, che allora possedeva, quando piacque a Dio che nascesse quel conflitto notabile in Anversa tra i paesani ed i francesi [5], da che conobbe il re che Dio benedetto combatteva per la sua giusta causa; ed avvenne poco appresso la rotta che il principe di Parma diede al maresciallo di Biron, e poi la presa di Dunkerque stimata infinitamente; e parve allora che le cose di Fiandra per il re incominciassero a respirare, e si trovassero in miglior grado che da molti anni a questa parte non era no state. E questo si può dire che sia lo stato, presente di quei paesi.

Al re furono sempre molesti quei sinistri successi di Fiandra, i quali si mitigarono in parte con i prosperi di Portogallo, benché se Fiandra si fosse perduta affatto, che non è, sarebbe assai maggiore la perdita che l'acquisto; poiché sebbene la Spagna abbia ridotto quel regno alla sua obbedienza, quelle navigazioni lontane servono più tosto a reputazione che a profitto; e quel regno era per se stesso tanto debole, che si poteva in ogni modo tener per soggetto senza spesa ne gelosia di stato. Ma la Fiandra, situata nel mezzo dell'Europa, è atta a soccorrer tutti gli stati del re con una potente armata che si può metter insieme dei naturali del paese, oltre che può far anco un grosso esercito, parte di paesani e parte di tedeschi, dei quali ne potrebbe aver tanti quanti vi fossero denari per assoldarne; dei quali denari la Fiandra è stata sempre abbondante per i gran traffichi, e il re, come già l'imperatore suo padre, ne ha tratto gran somma d' oro al tempo della guerra con Francia, contro la quale vale principalmente per far diversione. Adunque con molta ragione si muove S. M. a procurar di ricuperarla; e vi è un detto in Spagna che non vi è più Fiandra tenendola per perduta,  e un altro ancora, che mentre sessanta milioni, che tanti sono usciti di Spagna per Fiandra, non sono bastati a perder quella provincia, manco di dieci, se fossero pronti e spesi con giudizio, basterebbero a ricuperarla.

Dal numero e dalla grandezza degli stati che ho descritti, si potrebbe far conseguenza che le forze di S. M. fossero invincibili; ma l'esser essi divisi, e tutti soggetti alle offese di mare, è causa ch'ella non può unir tutte le sue forze. Con tutto ciò, dopo aver lasciati presidiati e ben guardati i suoi regni, potrà anco metter insieme uno e più eserciti, favorita dalle sue dipendenze d'Alemagna e d'Italia, onde nessun altro principe cristiano per avventura le leverà questo vantaggio.

Dall'armata di mare dipende, si può dir, assolutamente la difesa e sicurtà di tutti gli stati di S. M.; e questa è di due sorte, grossa e sottile. La grossa è di navi, galeoni, or che e caravelle, delle quali ne può il re metter insieme quante vuole secondo l'occasione per la gran comodità e abbondanza che ne ha in tutti i suoi porti, dove capitano quasi da ogni parte del mondo. Si può dir anco che abbia una squadra propria di 28 biscagline, fatte dai medesimi del paese per difender quella costa dai corsari. S. M. non ha mai per messo l'armar di questa sorte, sapendo ch'era occasione d'affrettar l'aperta rottura coi francesi; ma dopo che ha veduto ch'essi armano alla scoperta in favore di don Antonio, è con discesa a permetterlo con dar ai biscaglini comodità di poter fabbricare e armare i vascelli, e anco trattenerli. Questa libertà non ha anco dato S. M. ai guipuscani e catalani che la bramano. Si è trattato col re di Svezia di assoldar 50 sue navi per l'impresa di Fiandra, ma non restarono d'accordo nella contazione del pagamento. Si è anco trattato di fabbricar 100 saettie per poter speditamente soccorrer di gente e di munizioni quelle parti che bisognasse, e il resto servir per mercanzie; ma ne anco questo si è mandato ad esecuzione. L'armata sottile è di 92 galee, che stanno sempre armate, e costano poco meno di 800,000 scudi l'anno al re, e si ripartiscono sotto quattro squadre. La prima è di Spagna di 37 galee, e costano 9000 scudi l'una l'anno, ma sono mal armate, onde difficilmente si può servire di tutte in un medesimo tempo. La seconda è di Genova di 18 galere, otto delle quali sono di particolari e dieci del re, e tutte costano a ragione di 1600 scudi; e questa è forte, ed è la più utile e di maggior servizio dell' altre. La terza è di Sicilia di 13 galere, che costano 3000 scudi l'una. E la quarta è di Napoli di 2, se ben il regno ne paga 0, ma S. M. si valle in altro di quel denaro; e questa squadra le costa 8000 scudi per galera. Ha intenzione S. M. di volerle dar tutte a spesare a particolari, come fa di quelle di Genova, in che verrà a risparmiare forse 100,000 scudi l'anno; e i particolari non le pigliano per l'utile che abbiano da questo soldo, ma per il trasporto delle mercanzie e dei passeggieri, e per i contrabbandi e utili così fatti poco leciti. Si può anco S. M. servir delle galee dei signori di Genova, di Savoia e di Toscana per la devozione di quei principi, e saranno in numero di 12. Questa armata sottile S. M. la può accrescer difficilmente perché non usa di armare a ruolo, come si fa in levante e come usa la Repubblica, e l'introdurlo sarebbe con gran fatica; ma effetto pare che non le compla ingrossar la sua armata più di 90 ovvero 100 galee. In Spagna vi è un solo arsenale, quello di Barcellona, dove non si fabbricano più galee di quelle che bastano per il consumo della squadra di Spagna; e una galea servirà fin dieci anni. Sono galee molto pesanti e lavorate grossamente, ma costano un terzo meno di quelle che si fabbricano altrove. In Genova vi è poco arsenale, e così in Sicilia; ma in Napoli dicono esservi buon apparecchio. Il marchese Santa Croce mi ha detto più volte d'aver ricordato al re, non pur in voce ma per iscritto, che niuna cosa gli converrebbe  più per sicurtà dei suoi stati che tener 100 corpi di galee di rispetto in Napoli, e ch'esso ricordava il modo di farle e di armarle prontamente per due o tre mesi, come portasse l'occasione; e diceva che la fama sola di questo apparecchio conterrebbe il Turco, che non allontanerebbe l’armata dal levante, e che questo apporterebbe sicurtà piena alle cose della Repubblica. Il re vi diede orecchio, e vi applicò l'animo; ma o sia per il molto tempo che vi si spenderebbe, o per il denaro che farebbe bisogno, o pur per altre occupazioni di presente considerazione, non ha mai risoluto cosa alcuna. Ed è verissimo che il re e i suoi ministri stimano un tesoro l'apparecchio d'armata così grande e ben ordinata che ha la nostra Repubblica nell'arsenale, e che a loro non basterebbe un'età a metterla insieme, non tanto per il valore quanto per le difficoltà che si rappresentano a loro in tutte le cose.

Di soggetti atti al generalato di mare ha S. M. gran mancamento. Il duca di Medina Sidonia serve ora di generale, ed è giovane senza esperienza, che non ha mai navigato, e nemmeno gli conferisce il mare; e si giudica che S. M. tenga impiegata in lui questa carica per levarsi la molestia d'altri. Il duca è nobilissimo, ricco di 150,000 scudi d'entrata, e fu genero del sig. Ruy Gomez tanto favoritissimo del re [6]. Il marchese Santa Croce è generale della squadra di Spagna, e lo è stato di tutta l'armata nell'impresa di Portogallo e della Terzera; e questo è veramente il miglior soggetto per il mare che abbia il re, ed è capitano fortunato e valoroso, ne se gli sa opporre altro che avarizia; ma non è in grazia del re per non aver seguita la vittoria l'anno dell'82, e per non esser andato sopra la Terzera, che stava sprovvista e per rendersi, come dico no [7]. Capitano della squadra di Genova è il sig. Giovanni Andrea Doria, il quale si è però dichiarato di non voler navigar se non con titolo di generale di tutta l'armata, com'era suo zio; e per non avventurar le sue galee sotto il comando d'altri, ne ha vendute dieci al re per diecimila scudi l'una, e resta con due sole, che per esser di fanò, e più che inquartate, gli sono pagate 19000 scudi l'anno; ai quali aggiunti 6000 scudi di piatto, 2000 per trattener capitani, 1000 per uguagliar la moneta, e 10.000 della commenda, fa 38.000 scudi l'anno; e se ne sta in Genova con la soprintendenza dell'armata. È stimato più per esser marinaro che buon sol dato, e più temuto per il suo modo di procedere che amato; e stima egli che se il re avrà guerra, e gli bisogni unir tutta l'armata, dovrà servirsi di lui per mancamento d'uomini da comando; ma è opinione che il re si servirà più tosto del duca di Medina Sidonia, o di Cardona. Alcuni dicono che il principe di Parma aspira a questa carica, e altri nominano l'arciduca, Ernesto.

Se S. M. ha mancamento di soggetti per il generalato di mare, lo ha medesimamente per quello di terra, massimamente volendosi servir della propria nazione. In Spagna vi è il nuovo duca d'Alva tenuto per imitatore delle vestigie del padre, ma vede poco, e si trova in disgrazia del re per aver avuto già una donna di palazzo, e poi per essersi maritato con un'altra contro il volere di S. M.. Vi è anco il prior don Ernardo suo fratello naturale, stimato buon soldato e. in migliore opinione del re che non è l'altro, benché non molto favorito; e se bene ha più volte avuto parola d'esser ammesso nel consiglio di stato, non mai si è effettuata. Di principi liberi vi è quello di Parma, fatto soldato a costa del re; e alcuni anco parlano del duca d'Urbino e di don Pietro de'Medici. Di signori particolari vi è il sig. Marc'Antonio Colonna, ancor egli più stimato che amato in Spagna, e così il sig. Vespasiano Gonzaga. Di modo che di soggetti di qualità è ristretto il re, se non volesse innalzar a questa dignità alcun generale di fanteria o di cavalleria, o maestro di campo, che di questi non gliene mancano; ma per esser obbedito bisognerebbe che molto eccedesse tutti di valore ed esperienza. Per metter fine a parlar degli stati e delle forze del re di Spagna, dirò che di tanto dominio che oggi possiede S. M. ne trae poco meno di 14 milioni, senza quello che si spende nelle Indie; somma purtroppo grande che apporta meraviglia. Ma però considerando che tutte queste entrate sono obbligate a debiti inestinguibili, ovvero assegnate a spese forzose e necessarie, ognuno conoscerà che non va niuna cosa in avanzo, anzi ogni anno s'indebita di due e più milioni, e più per le spese estraordinarie. Il modo di provvedere a quel più che bi sogna per mezzo di nuove gravezze è difficile e pericoloso, massime che bisogna passar per via delle corti; e ancorché i procuratori dipendano da S. M., tuttavia le convien usar l'autorità che si prende sopra di loro modestamente. Ricercar denari in prestito dalle città e provincie, la M. S. l'ha fatto alcune volte, ma bisogna usarlo di raro. Il mezzo ordinario del principi, e quello col quale il re ha fatto tanti anni la guerra di Fiandra, e ultimamente quella di Portogallo e della Terzera, è dei mercanti e degl'interessi; e benché pare che osti a questo il decreto che fece già S. M. contro i suoi creditori riducendo a sconto di capitale parte degli interessi corsi, che dovrebbe averle scemato il credito e levato il modo di trovar denari, nondimeno si prova in contrario; perché S. M. vien ad aver liberati molti fondi da poterli obbligare di nuovo, che è stimata la maggior importanza in questo caso. I mercanti sono poi tanto avari, che si scordano facilmente le ingiurie quando si tratta del loro interesse; e la copia del denaro in mano dei particolari è grande, e scarsi i partiti da poterlo impiegar con utile; onde si vede chiaramente che dopo il decreto il re ha avuto la medesima facilità che prima in trovar denari, e anco, con manco interesse che non soleva; di che è principalmente causa il trovarsi fondi liberi e disobbligati.

Questi tanti stati e queste sì gran forze del re Cattolico sono rette parte dai regni e dalle provincie medesime con le lor proprie leggi, parte dai governatori e viceré con la sopra intendenza dei consigli che risiedono in corte, e tutto insieme dalla gran prudenza di S. M. Cattolica. Dove i privilegi delle provincie non ostano, S. M. vi manda ministri particolari a regger la giustizia civile e criminale, e i viceré in ogni caso han la soprintendenza dell'una e dell'altra, e sopra tutto tengono conto dell'armi che servono alla offesa e difesa, e delle materie di stato. In corte vi sono sei consigli; d'Italia, Aragona, Castiglia, Portogallo, Indie, e Ordini, che trattano e consultano con S. M. le materie di grazia e di giustizia e le provvisioni di offici e dignità tanto secolari quanto ecclesiastiche; e in questo è differenza dal costume dell'altre corti, dove le materie di giustizia dipendono dal consiglio e quelle di grazia immediatamente dal principe. È vero che S. M. non si conforma sempre al parere del consiglio, e quando sta nella segnatura altera alcune volte le cose secondo il suo beneplacito, o le manda a consultar meglio; ed è cosa notabile veramente che ogni cosa, per piccola che sia, convien passare per sua mano, ed essere firmata di suo pugno, lo che la tiene occupata molte ore. Questo è segno evidente che non fida dei suoi ministri; e la causa è che sono morti i vecchi, e S.M. non ne ha allevati dei nuovi, dal che procede il poco numero che la se ne trova avere. E in quelli che elegge ha più mira alla bontà e conformità del genio che al valore; perché di quelli che sanno molto e sono di elevato ingegno, dubita S. M. che vedano più di lontano che non fa essa; sì come, per lo contrario, di quelli di mezzano valore ella confida più, come faceva di Ruy Gomez, ed ora del conte di Barajas, del commendator maggiore, di don G. Idiaquez, e altri simili.

Tre sono poi i consigli che si può dir che trattino materie di stato. Quello che propriamente si dice di stato, quel lo di guerra, e quello di azienda; che è la materia dei denari. Consiglio di stato si può dir che S. M. non lo abbia avuto per alquanti anni addietro, e che ora ne abbia poco; perché sebben per lo passato aveva il duca d'Alva, di maggior esperienza degli altri, S. M. non se ne fidava molto, oltre che si è trovato quasi sempre assente, o infermo, o in disgrazia, onde del suo consiglio se ne valeva poco. Ora se ben ha alquanti consiglieri, non ve n'è però alcuno che assolutamente possa col re, ma solamente in quelle materie intorno a cui sono domandati, e che sono del proprio carico loro. In questo modo si può dir che ognuno possa qualche cosa; ma se un ministro, per favorir un negozio, si volesse intro mettere in cosa che non dipendesse dal suo carico, nuocerebbe grandemente a se stesso e al negozio che volesse favorire. Il modo di negoziar oggidì è di far ben capace il re in voce e in scritto della cosa di che si tratta, perché la prima impressione può assaissimo, e poi far altrettanto con quel ministro o ministri a cui particolarmente è rimesso il negozio.

Del consiglio di stato al partir mio erano cinque, e un segretario, ne S. M. vi interviene mai, anzi il medesimo consiglio si riduce di raro, perché come S. M. s'è data a questo di negoziare per iscritto, così fa prendere separatamente per scrittura il parer de' suoi consiglieri, e poi delibera quello che più le piace.

Il cardinal di Granvela è il più antico consigliere, di nazione borgognone, d'età di sessantasette anni, dei quali ne ha spesi 40 nei più intimi negozi del re e dell'imperator suo padre, lo che gli ha fatto acquistar abilità così grande in tutte le cose, che accompagnata da virtù e valor singolare, lo rende il più utile ministro che S. M. abbia, massime che il re per sua natura è scarso d'invenzione e di partiti; onde nei negozi ardui e difficili ama il parere di quest'uomo, al quale nessuna cosa può esser nuova, e sa proporre tanti partiti, e dar così saldi pareri, che S. M., per natura sua giudiciosissima, ha facilità in sceglier il migliore e mandarlo ad esecuzione. È vero che come questi due non sono conformi ne di natura ne di fine, così i pareri convengono esser per lo più diversi; onde spesse volte S. M. non abbraccia i consigli del cardinale, di che esso se ne duole, e dice che il re si serve di lui come di fiscale. La natura del cardinale è esecutiva, pronta, e risoluta; quella del re tutta flemma, tutta sodezza. Il cardinale vorrebbe che il re non pur avesse per fine il conservar il suo, ma conseguir la monarchia universale, se fosse possibile, e che rompesse affatto con Francia, e che non facesse più la guerra in maschera, stimando questo solo rimedio sicuro per fornir bene la guerra di Fiandra; ma all'incontro il re ha per fine di conservar l'acquistato, che è molto, e vorrebbe stancare e consumare i francesi, sicuro che i fiamminghi non intendono di farsi a loro soggetti, e che come si son chiariti degli alemanni e di Mattias [8], così faranno dei francesi e di Alansone. Si duole il cardinale che il re non voglia generalmente il suo parere in tutte le materie, ma nelle difficili solamente, o in quelle che gli piace, e non voglia sentir il suo parere in voce ma per iscritto, dicendo che è pericoloso lo scriver in materia di stato, massime dove vi sono emuli. All'incontro S. M. lo trattiene e lo consola con fargli spesso onore in pubblico, e lo stima per la sua abilità, per il valore e per la fede, sicuro che posporrà sempre al suo buon ser vizio qualsivoglia interesse d'amico, di parente, e suo proprio, fino a porvi della coscienza, perché mentre consiglia il re non si ricorda d'esser prete ne cardinale; e questo si verifica nel far che il re tenga mano agli ugonotti di Francia per divertir la regina madre, e levarla dal soccorrer la Fiandra e dall'eccitar i turchi ai danni di Spagna. I ministri stanno quasi tutti male col cardinale come forestiero, e gli oppongono che la libertà del suo dire e della sua natura pregiudichi al servizio di Sua Maestà, ne le conservi gli amici; che la sua prestezza nelle risoluzioni sia contraria a quell'utile che per esperienza si prova dal benefizio del tempo, e che la sua determinazione alla guerra con Francia, e alla continuazione di quella di Fiandra, sia per propria passione. E perché il cardinale è tutto dedito a tener i francesi mal contenti del loro re naturale, e ciò con molta spesa del re Cattolico, anco a questo trovano da opporre. Onde non manca al cardinale chi attraversi le operazioni sue, sì come han anco attraversato le sue pertrattazioni della protezione di Spagna, data al cardinale de' Medici, ch'esso pretendeva sopra ogni altra cosa. Ma, come ho detto, conoscendo il re quanto questo gli sia utile e buon ministro, e quanto bisogno abbia di lui, lo trattiene in diversi modi, e gli ha dato una pensione sopra Siviglia di 6000 scudi d'entrata, e ad un nipote una commenda di 3000. Quanto questo e gli altri ministri siano ben affetti verso la Repubblica, mi basterà dire che antepongano sempre qualsivoglia piccolo servizio del re ad ogn'altro rispetto.

Il cardinale di Toledo, inquisitore maggiore di Spagna, di settantun'anni, ricco di 250.000 scudi di entrata, è uomo duro nei negozi e nel trattare. In corte è stimato non per altro che per esser inquisitore maggiore, ed ora il re si serve poco di lui. Il marchese d'Aguilar è amato da S. M. per la sua bontà, non vi essendo in lui altra parte da lodare. Il marchese d'Almazan, ora vicerè di Navarra, non l'ho conosciuto. Il quinto consigliere è don Gio. di Luniga, nuovo nel consiglio, riputato per la bontà della vita e dei costumi e per esser religiosissimo: è difettoso della vista e dell'udito, e dicono che sia duro nelle sue opinioni. Segretario di questo supremo consiglio è don Giovanni Idiaquez, che fu qui ambasciatore, e fa l'ufficio in luogo del segretario Antonio Perez, al quale fu interdetto il carico per le occasioni, che sono note. La bontà e integrità di don Giovanni lo fa amar e stimare dalla M.S., la qual non usa però di trattar con lui d'altri negozi che quelli ch'essa gli propone, ed egli, per natura modesto e ritirato, non preterisce punto; ma non essendo molto esercitato in quel officio, dura più fatica di quel che comporta la sua debole complessione, dal che procede una lunghezza insopportabile nelle spedizioni sue. La mercede ch'egli in pochi anni di servizio ha avuto dal re fa credere che gli sia in grazia, poiché S. M. gli diede una commenda de 12.000 scudi d'entrata con 30.000 di contanti decorsi, atta ad ogni gran signore.

Consiglieri di guerra sogliono esser quelli che ritornano da ambascierie, come don Francesco d'Alava, generale del l'artiglieria, che è stato ambasciatore in Francia, e don Gio. Idiaquez, che lo è stato in Venezia; oltre che in questo con sigillo intervengono i medesimi consiglieri di stato. segretario è don Gio. Delgado, in buona opinione del re perché prende in se molte colpe a sollevamento di S. M. [9]. -

Il terzo consiglio di stato è quello d' azienda, che ha tutta la macchina della provvisione del denaro, e da questo consiglio dipendono quello di contadoria e quello della camera. Il re non può spender un ducato che non passi per mano di questi, i quali hanno sempre da travagliare in far provvisione di denari, che è materia difficile sopra tutte le altre. Di tutti questi consigli si cavano poi altri uffici, che domandano giunte. Il re sente volentieri il conte di Barajas, presidente di Castiglia, in quello che tocca al governo dei figliuoli e al risparmio delle spese di casa. Nel governo della sua casa reale ha tre maggiordomi, e può spender 200,000 scudi senza le guardie. Nei negozi d'India e d'Aragona s'intromette il conte di Chinchon maggiordomo e favorito per la memoria del padre. segretario della sua camera è Matteo Vazquez de Lesa, che ha più entratura e favore con S. M. di qual si voglia altro ministro.

Il re è di quel religioso e cristianissimo animo che è noto a tutti, e come dimostra questa sua religione in tutte le sue operazioni, e particolarmente nel frequentar i divini uffici e i santissimi sacramenti, e in saper le cerimonie della chiesa a punto come ecclesiastico, così bisogna tener per fermo che corrisponda l'intrinseco, avendone sempre mostrato certissimi segni. Il medesimo non si può affermar già della nazione spagnola, che si dà molto all'apparenza. È principe giustissimo per sua propria natura, e si estende tant'oltre questa sua giustizia, che se non fosse regolata dalla somma prudenza ed esperienza delle cose del mondo, passerebbe in severità, di che se ne potrebbero addurre molti esempi. Il re è di natura flemmatica e melanconica; la flemma è causa che dà a tutti udienza con gran pazienza, e ancorché le risposte siano generali e le spedizioni tarde, nondimeno apporta pur soddisfazione; ed è da notar veramente come, per cosa impertinente e fastidiosa che gli venga detta, mai s'altera, mai si commuove. La melanconia poi gli fa amar la ritiratezza e solitudine, e fuggir quasi ogni sorte di piacere; e ripartisce il tempo con tanta misura, che mai sta in ozio, anzi sempre occupatissimo negli affari e negozi suoi, che sono infiniti. E questa molteplicità dipende dal voler abbracciar ogni cosa, dal che ne nascono molti inconvenienti, ma uno principalissimo che non patisce opposizione; che, cioè, non bastando il corso d'un giorno ne l'opera d'un uomo ad attendere ai negozi che giornalmente si offrono, molti convengono restar addietro indeterminati; e questi per l'ordinario sono i più difficili e i più importanti a risolvere. Oltre di questo è tanto puntuale in tutte le cose, cosi vuole che siano gli altri, che mai si muove dal suo passo per alcuno accidente. E di tenacissima memoria, e tanto apprezza il servar la parola e l'essere amico della verità, che niuna cosa è più facile a far cader un ministro dalla sua grazia, che la bugia e l'adulazione manifesta. È amicissimo di certa sorte di buffoni, con i quali si trattiene alle volte, ed è curiosissimo di saper tutti gli andamenti delle persone di qualità della corte, e si serve per lo più di loro per istrumento di questa sua curiosità, poiché s'intromettono da per tutto. Il re si può dir che sempre si sia dimostrato più timi do che ardito, perché così gli detta la propria sua complessione; e le cose passate lo dimostrano, non avendo mai per elezione intrapresa cosa grande o difficile, e se gli è succeduto qualche fatto notabile è da attribuirlo alla fortuna. L'impresa d'Algeri, tanto comoda ed importante a Spagna, non l'ha tentata. Con turchi e con mori si è dimostrato amico di tregua e di pace. La guerra di Fiandra non gli è mai dato l'animo di finirla; però si risolverà d'assalirla per mare, e di andarvi in persona. E se ben pare che l'impresa di Portogallo contraddica a queste altre cose, bisogna ricordarsi che un esercito forte e ben comandato si opponeva ad un vile e tumultuario, e poi S. M. non entrò in Portogallo, se non con la palma, dopo che il duca d'Alva ebbe conquistato ogni cosa. Altrettanto si può dir della liberalità, che S. M. si sia dimostrata più tosto parca che altrimenti; perché in tutte le spese, per piccole che siano, è molto avveduto, e così in rimunerar i servizi fatti, e particolarmente de' soldati, usando dire che questi han così poca coscienza che si fan la mercede da per loro. E se ben si sente spesse volte che S. M. fa alcun gran donativo, questo sarà o di beni ecclesiastici o di commende o carichi ed offici, che con buona coscienza non può tener per se; ma del suo patrimonio fa grazia a pochissimi, anzi le fatte per lo passato le sospende, com'è avvenuto ultimamente sopra lo stato di Milano per poter pagar quella milizia. Quello in che si è dimostrata S. M. liberale è stato nelle fabbriche di palazzi, chiese e monasteri, perché ha speso 300.000 scudi ad Aranjuez luogo suo di delizie, e nel monastero e chiesa dell'Escoriale alquanti milioni, che non è anco fabbrica finita ne senza opposizione. La spesa fatta nella guerra di Fiandra non si può attribuire a liberalità, ma a necessità; ne mai ha voluto che si vedano i conti di quel la spesa, forse perché la grandezza di quella non gli ha dato l'animo di porvisi, o pure perché ha dubitato di non trovar vi il conto, avendosi il principe di Parma per sospetto, Onde si può tener per proposizione vera, che S. M. sia più tosto parca che liberale; si come si può anco tener per conclusione verissima che sia più inclinata alla pace che alla guerra, per ché stima la pace più sicuro partito, per l'esperienza che ha avuto in tempo dell'imperatore, e suo ancora, che quando i principi sono in guerra non sono padroni dei sudditi ne dell'esercito, e convien loro accomodarsi per non provar gli effetti che possono venire dalla fede di quelli. Per questo non ha rotto con i francesi che glie n'hanno dato tante volte occasione, e con i mori e turchi che l'han più volte stuzzicato. Vale molto il re in dissimulare e tener nascoste le passioni dell'animo suo; ma l'artificio non basta però a coprire l'intimo dell'affetto, essendosi sempre S. M. dimostrata ricordevole dell'ingiurie ricevute, e difficile al perdonare, contro quello che molti anni fa si predicava; ma l'esperienza ha fatto conoscere il contrario, tanto che ormai tutti afferma no questa verità. Ha S. M. molti pensieri che le travagliano l'animo, come finir la guerra di Fiandra, assicurarsi del Portogallo, l’incertezza della sua successione mascolina, e molti altri; ma ha questa buona condizione, che non perde mai l'appetito ne il sonno. È di buon pasto, e sempre mangia le medesime vivande, e non d'altro che di carne, e dorme otto ore tra la notte e il giorno.

Desiderava S. M., per assicurar la successione, prender la quinta moglie [10], a che però ripugnava l'età di 57 anni, le indisposizioni famigliari dello stomaco, del fianco e della gotta, aggravate dai travagli dell'animo e dalle occupazioni dei negozi; oltre che S. M. avrebbe bisogno di figliuoli che fossero già in età e non nelle fasce. Con tutto ciò si era S. M. disposta di maritarsi con la regina vedova di Francia, figliuola dell' imperatore, s'essa l'avesse acconsentito; ma si è essa scusata con dire di aver fatto voto di castità, e che nessuna regina vedova di Francia si è mai rimaritata, ed essa non vuole esser la prima; e per rimuoverla da questo proponimento non è bastata l'autorità della madre, le preghiere dei fratelli, ne le esortazioni di tutti gli altri. Voltò poi l'animo ad una figliuola di donna Caterina duchessa di Bragança sua cugina, ma o per esser troppo giovane, o per esser suddita, o per altro, non si fermò in essa. Gli fu proposta una sorella del duca di Baviera, di età di 25 anni, e alcuni dicono una sorella del re di Navarra, con obbligo di viver cattolicamente, e coll'intento di tener per mezzo di questo parentado i francesi in officio. E anco il granduca di Toscana non è mancato di fargli ricordar la sua figliuola primogenita; ma veramente S. M. non applicò mai l'animo da vero che alla regina di Francia. Ha volto l'animo a maritarle figliuole, e bisogna credere che ciò gli sia occasione di gran travaglio, vedendo di gran contrari in qualsivoglia risoluzione sia per pigliare. La figliuola maggiore, che pare da molto tempo destinata all'imperatore, S. M. non gliela dà volentieri per dubbio della vita del principe, e ch' essa debba succedere a quella corona; nel qual caso non metterebbe conto alla Spagna aver l'imperatore per suo re, perché le converrebbe mantener le guerre ch' esso facesse in Germania contra turchi, appunto come adesso quella di Fiandra, oltre molti altri inconvenienti che ne seguirebbero secondo loro dal non aver un re proprio. Però quando fosse certo il re che questa figliuola avesse da ereditare, gli converrebbe maritarla più tosto coll'arciduca Ernesto o col cardinal Alberto, figliuoli dell'imperatore Massimiliano, o col duca di Savoia; e di questi è da credere che S.M. eleggerebbe quello che stimasse che le fosse più ossequente, ricordandosi di aver letto di Ferdinando d'Aragona, che avendo maritato la sua unica figliuola in Filippo padre di Carlo V, tutti i maggiori signori di quel regno abbandonarono Ferdinando e seguirono Filippo; e avendo portato la sorte che il genero morisse prima dello suocero, tutti quei signori ritornarono a seguir il loro re naturale, ne seppero con altro scusare il loro errore se non con dire: chi avrebbe mai pensato che un vecchio infermo sopravvivesse ad un giovane ardito e ben disposto! Gli spagnoli sono quelli che mettono innanzi il duca di Savoia, dicendo che così convenga alla grandezza della corona di Spagna. Ma se un principe ha mira alla perpetuazione della sua propria casa, molto più è da creder che l'abbia il re della sua d'Austria, avendo tanto che lasciare. La seconda figliuola è poi ricercata al re dal duca di Savoia, e pare che convenga a S. M. di darla più a lui che ad altri, così per avergliela promessa in vita del duca Emmanuel Filiberto suo padre, come per maggior sicurtà dello stato di Milano e facilità di offesa contro i francesi, avendo il Piemonte e la Savoja a sua devozione. Non manca già la regina di Francia di far istanza di averla per il duca di Alansone, e l'imperatore per l'arciduca Ernesto, ovvero che non si mariti se prima non si vede caparra di figliuoli nella maggiore; onde S.M. sta tuttavia dubbiosa ed irresoluta con non poco suo travaglio. E veramente è da pregare il Signore Dio che la illumini a deliberar il meglio in cosa di tanta importanza per bene e quiete comune della cristianità, e che allunghi gli anni a S. M. perché non v'ha dubbio ch'ella amerà sempre più la quiete e la pace, e i principi che saranno amici d'essa, spronandolo a questo il proprio interesse e la propria inclinazione. In corte s'è sparsa voce che S. M., per aver la precedenza sopra Francia, avrebbe da procurar col pontefice di aver titolo di imperatore di tutta Spagna e dell'una e l'altra India; ma è vanità, perché è meraviglia come S. M. in tante felicità di fortuna, tante grandezze, tanti stati, e così gran forze, abbia l'animo tanto moderato e composto, e lontano dalle passioni e dagli affetti.

Il principe don Filippo, unico figliuolo di S. M., nato dalla regina Anna, avrà ora sei anni. È di pelo biondo, di faccia nobilissima, e si assomiglia meravigliosamente al padre. È molto delicato di membri e di debolissima complessione, tanto che non appetisce cosa che mangi. Ha poi un corso d'umor salso in una gamba che glie la rompe, ne si può saldar affatto, e spesso gli mette la febbre; e questa in disposizione gli viene dal latte della balia, che non era sana. Tuttavia il colore è buono, la vivacità è grande, e i preghi a Dio sono continui per la salute e prosperità di S. A.

Della regina Isabella, che fu sorella del re cristianissimo e terza moglie di S. M. Cattolica, vi sono due figliuole; la prima di età di 18 anni, e la seconda di 17. La maggiore si chiama col medesimo nome della madre, Isabella, nata veramente fortunata, poiché oltre che il padre l'ama assai più teneramente che non fece mai alcun altro de' suoi figliuoli, ha l'amore e la benevolenza interamente di tutta Spagna, che da molti anni in qua le augura la successione, e vi è molto vicina; e certo che merita ogni bene, perché oltre d'esser d'un animo tanto pio e religioso che niente più, è dotata di tanta virtù e prudenza che la rende degnissima di regnare. La seconda infante si dice Caterina; non è bella ne graziosa quanto la sorella, ma è più allegra, più gioviale, e matreggia più che non fa l'altra. Potrebbe esser che questa si maritasse prima in Ernesto o in Savoia, e che la maggiore dovendo ereditare si fermasse presso il padre.

L'imperatrice [11] ha un anno manco del re suo fratello. Non si trova molto contenta in Spagna, perché non vede d'aver guadagnata la volontà del re a beneficio dei figliuoli come vorrebbe. Non ha modo di pagar molti suoi debiti contratti con particolari, lo che stima a carico di coscienza; ne le dà modo il re di poter spendere se non parcamente, massime rispetto alla grandezza dell'animo suo, che è generosissimo. Si trova ella aver presso di se una figliuola, detta l'infante Margherita, alquanto difettosa della persona, e se ben S. M. dice di volerla monacare, non ha dubbio che la mariterebbe più volentieri, o con un figliuolo del re di Svezia; che glie l'ha ricercata, o con altri, quando il re si contentasse d'indottala. Oltra di questo, le medesime cause che la fecero partir di Germania, la fanno star mal contenta in Spagna. In Germania pretendeva ella di aver parte nel governo, e che i figliuoli dipendessero in certo modo dal suo volere, ad imitazione della regina madre di Francia; ma non le riuscendo, e conoscendosi veramente nata per regnare e comandare, fece questa de liberazione, da esser stimata grandissima, di abbandonar per sempre i figliuoli e ritirarsi a vivere in Spagna. Il re suo fratello si oppose quanto poté, e a questo rispetto mandò l'almirante di Castiglia in Germania; ma non bastò per rimuoverla dal suo proponimento. In Spagna poi non sta contenta, perché mentre al governo di Portogallo non le parve condecente di restare, stimava ella nondimeno in corte poter esser atta ad aiutar il fratello a portar così gran peso del governo di tanti regni, ancorché se ne stesse ritirata in una casa congiunta ad un monastero di monache francescane. Ma si è ritrovata ingannata, perché il re non le fa dar parte di cosa alcuna; e vedendola tanto liberale nel donare e spendere, ha detto che se stesse in sua mano lo impoverirebbe presto. Però si sta ella molto ritirata, e non s'intromettendo in negozi, a lei è levata l'occasione d'interceder per altri, e al re di compiacerla; onde fra essi non vi è buona intelligenza, con tutto che d'ogni parte passino mutui uffici di visite ed altri complimenti, che si possono più tosto chiamare adulazioni di corte che effetti veri d'amore. Le cause di questo si possono più tosto discorrere che saperle, ma l'effetto è chiaro e noto a tutti. Ha d'entrata 2.000 scudi in Napoli di sua dote, 20.000 scudi le dà il re sopra Siviglia ogni anno, 20.000 scudi le lascia il vedovile. Non è tenuta donna di governo, ne mai è stata, ma sì bene devota, buona, pietosa e benigna.

Col Pontefice (Gregorio XIII) S. M. non s'intende tanto bene quanto molti credono, perché se ben S. S. si mostri amator di pace, ed abbia concesso a S. M. molte grazie, e ultimamente quella della legazione di Portogallo da esser stimata assai, non dimeno per avergliela fatta desiderar lungamente, e non le aver dato soddisfazione in altre materie, non si trova S. M. molto contenta, parendo a lei d'esser la vera base dove si fermi ed appoggi l'autorità della sede apostolica, e d'avere ad esser soddisfatta tanto per questo rispetto pubblico, quanto per il particolare del sig. Giacomo Boncompagno, al quale ha pur conferiti molti onori e benefici. E 1° si duole il re che Sua Santità più tosto cerchi d'abbassare l'autorità alla sua inquisizione di Spagna che di conservarla ed accrescerla; 2° che nella conquista di Portogallo si sia mostrata poco favorevole; 3° che non si sia voluta dichiarare contra i fiamminghi come ugonotti e nemici della Santa Sede; 4º che tenga più conto dei francesi di quello che S. M. Cattolica vorrebbe; 5° finalmente che avendole più volte S. M. fatto tener ragionamento di concluder una lega difensiva per le cose d'Italia contro gli ugonotti di Francia che volessero assalirla, non per voler indurre S. S. ad entrar in guerra, ma per assicurarla di starsene in pace, Sua Santità non vi abbia voluto prestar orecchio, dicendo che le leghe si han a fare contro gl'infedeli generalmente e non contro una nazione sola, per voler, sotto questo nome, escluder i francesi d'Italia, e che è officio suo procurar di conservar la pace non pur in Italia ma in tutta la cristianità, e per conseguirla convenirle mostrarsi neutrale, adducendo molti inconvenienti che potrebbero nascer dal contrario.

Sua Maestà da un tempo in qua non ama più di dar soddisfazione ai cardinali come soleva, ne tenerli obbligati con pensioni, poiché stima che le cose della cristianità siano in termine che ai pontefici convenga sempre dipender dalla sua volontà. Però si dà sempre a beneficargli stretti parenti de pontefici, i quali sogliono governar il papato e per lo più far il successore, il quale S. M. non cura manco che sia spagnolo, perché di esso si prometterebbe manco che di qualsivoglia altra nazione; e però non ha oggi altro che due cardinali, Dezza e Toledo, e se procura di far Siviglia è in paga di aver condotta l'imperatrice a proprie spese da Barcellona in corte [12]. Con tutto ciò l'ambasciator cattolico in Roma tiene ordine, in occasione di sede vacante, d'istruire quelli della sua fazione della volontà di S. M., la quale dei cardinali papabili, che d'ordinario son pochi, fa tre classi: una per escluderli, e questi sono i cardinali principi, dei quali Farnese solo pare che al presente caschi in considerazione, il quale mandò un monaco di san Giorgio Maggiore, don Michele da Venezia, a supplicar umilissimamente S. M. che avesse per raccomandato l'onor suo, e revocasse l'ordine che teneva don Giovanni di Zuniga della sua esclusione dal papato, mostrandole quanto questo convenisse al buon servizio di S. M. con diverse ragioni che furono poco accette al re, onde il frate non riportò che risposte generali che non stringevano. Un'altra classe è dei cardinali papabili, che sono neutrali, di ognuno dei quali si contenterebbe S. M. sempre che le altre fazioni vi concorressero. La terza è di quelli che S.M. vuole che siano particolarmente favoriti, e questi si crede che ora siano tre, Sangio, Montalto, Sirleto [13]. Alcuni nominano Paleotto, altri Savello, che fa il devoto di quella corona; ma sopra tutti sarà favorito Como. Il sig. Giacomo Buoncompagno gode questi gradi ed emolumenti: la commenda maggiore detta la Claveria di Calatrava, che soleva esser di Ruy Gomez, e vale 12.000 scudi d'entrata, il generalato delle genti d'arme dello stato di Milano di 6.000 scudi, e una compagnia di gente d'arme con scudi 1.000, oltre molti altri benefici che ne trae alla giornata; con che stima il re di aver posto il papa in tal obbligo, che non s'abbia mai a partire dalla sua volontà. Ma a S. S. pare questo poca ricompensa rispetto a tante grazie ordinarie ed straordinarie ch'ella gli concede di continuo, buona parte sotto titolo di far la guerra agl'infedeli, non ostante la tregua col turco. È opinione universale che se l'età presente avesse avuto altro pontefice, non si sarebbe perduta l'occasione di batter il turco in così buona congiuntura della guerra di Persia; ma il re, come non ha avuto chi lo stimoli e quasi sforzi a questo, secondo che avrebbe potuto fare il pontefice sotto pretesto delle grazie che gli concede, se n'è trattenuto e si è occupato in altro. E il pontefice ha avuto tutta la mira ad aggrandire per una parte il figliuolo, e per l'altra la giurisdizione ecclesiastica ad oppressione della secolare. Cava Sua Santità dalla collettoria di Spagna circa 150.000 scudi l'anno, parte delle spoglie dei vescovi, parte dei frutti dei vescovati per i tempi delle vacanze.

L'imperatore nipote carnale del re e allevato in Spagna, s'è reso molto sospetto a S. M. nelle cose di Fiandra, essendo caduto in opinione non solo d'aver avuto per bene quella ribellione, ma d'averla fomentata per suo particolare interesse, con fine che il re lo ammettesse in quegli stati sotto nome di governatore o protettore o con qualsivoglia altro pretesto. E questa suspicione crebbe quando gli stati si contentarono che Cesare fosse compromissario delle loro differenze, al che la M. S. non volle acconsentire, e si confermò che da esso non fossero venuti mai buoni uffici in quel negozio, tutto on oggetto del proprio interesse. Nelle trattazioni poi del matrimonio passarono le difficoltà che si sanno, perché l'imperatore procurò d'avvantaggiarsi troppo più che non avrebbe voluto il re. E così restarono d' ogni parte gli animi sospesi ed alterati fin quando venne in Spagna l'imperatrice, che cercò di riconciliarli, essendosi Cesare contentato di accettar le condizioni che gli venivano proposte dal re. Ma in questo mentre successe la morte dei due figliuoli, del principe don Diego e poco appresso dell'infanta Maria, lo che portò seco nuovi pensieri e difficoltà; onde le cose trovansi nelle condizioni che son note. Tutta la casa d'Austria con una voce si duole che S. M. sia poco ricordevole della sproporzionata ripartizione che seguì fra i due fratelli imperatori Carlo e Ferdinando, e che possedendo la M. S. tanti stati, e potendo bonificare e onorare i parenti con proporli a qualche governo, voglia ella servirsi più tosto d'altri. L'arciduca Ernesto è in ottimo concetto del re, che l'ama come figliuolo, essendo opinione che abbia tenuto la parte di S. M. in ogni occasione. Esso ha diverse pretensioni, come del grado di vicario del re in Italia, e di generale dell’armata come aveva il signor don Giovanni, ed altre; ma la maggiore di tutte è il matrimonio della secondogenita di Sua Maestà in caso che la prima si mariti con l'imperatore; e l'imperatrice lo procura molto vivamente senza voler discendere ad alcun particolare della dote, sapendo che il re, dopo averle dato marito, converrebbe provvedervi, non avendo S. A. ne stato ne facoltà. Alcuni dicono che S. M. procuri che l'imperatore, rispetto alle sue indisposizioni, si disponga di non si marita tare, ma far elegger re de' Romani l'arciduca Ernesto, perché i suoi eredi, con l'impero, succedessero alla corona di Spagna, che in altra maniera non darebbe l'infanta per moglie ad esso Ernesto [14]. Dell'arciduca Mattias non si parla per la leggerezza ch'egli fece di passar in Fiandra a contemplazione degli Stati, il che l'ha privo per sempre della grazia del re. L'arciduca Ferdinando è stipendiato da S. M. in virtù d'un obbligo di tenerla provveduta di tre colonnelli d'alemanni in ogni occasione, e S. M. si serve volentieri di quelli del contado del Tirolo per esser cattolici. L'arciduca Massimiliano non è mai stato in Spagna, ne ha fatto manco operazione di disgusto del re, ma è in poca considerazione. L'arciduca Carlo è poi amato come parente, ed ha da S. M. certo poco trattenimento. Alcuni principi di Germania sono anco confederati di S. M., ed altri stipendiati con obbligo di darle genti all'occasione, benché conosca S. M. che ciò le torna di pregiudizio, e che le metterebbe più conto restare in libertà, e servirsi, secondo le congiunture, di quelli che più le piacesse, poiché in sua mano sta di aver le patenti di levar gente sempre che vuole. Il cardinale Alberto, che si trova in Portogallo, è ultimo figliuolo dell'imperatore Massimiliano e della imperatrice Maria, amato grandemente dal re per la bontà e per le virtù sue veramente egregie e singolarissime, che lo fan degno d'esser onorato e rispettato da tutti. Ha 80,000 scudi d'entrata. È da evangelo, e S. M. vuole che si faccia da messa, perché morendo il cardinal di Toledo sia capace di quel arcivescovato.

Fra il re Cristianissimo e il re Cattolico si trovano sparsi tanti semi di discordie, che è meraviglia come finora non siano venuti a guerra aperta, ne è dubbio che d'ogni parte vi è disposizione per farlo. Solo sta indeterminato il tempo del l'esecuzione, cercando tutti due di star sull'avvantaggio. Ha procurato il re di Francia con ogni ufficio possibile di far persuasa S. M. Cattolica ch'esso non ha avuto parte nella mossa di monsignor suo fratello, che non gli diede aiuto ne favore, e così alla regina madre per la sua pretensione in Portogallo, ma che non gli stava bene ne conveniva opporsi con la forza ne all'uno ne all'altra, massime che la regina, come dicono i francesi, era stata ammessa dal re cardinale tra gli altri pretensori a quella corona, ed essa si era voluta metter in giudizio. Questa discolpa non aveva mai S. M. Cattolica voluto accettarla ne ricusarla affatto; e in questo dubbio dicono i francesi che non sapevano se lo dovevano tener per amico o sospetto. A questo rispondono gli spagnoli, esser noto a tutti che il re Cristianissimo manteneva monsignor suo fratello in Fiandra per assicurarsi di lui e per tener la guerra lontana, che gli somministrava 50,000 scudi il mese, gli permetteva levate di genti, e lo faceva spalleggiare dalla sua cavalleria ai confini. E quanto alla regina madre, che non avendo ella azione immaginabile sopra Portogallo, non era ragione metter la cosa sotto giudice, sì come non ha avuto ragione di favorir don Antonio, ne far la guerra per lui. E S. M. Cattolica si è molto ben certificata che in tutte le spedizioni che si son fatte in Francia per le Terzere, il re Cristianissimo vi ha posto mano, perché le patenti dello Strozzi e d'altri capitani, che restarono in poter dei spagnoli nella battaglia di mare del 1582, erano firmate di mano del re Cristianissimo, non che quelle di monsignor di Sciatre e d'altri capitani che si perdettero nell'83 alla Terzera; e tutte queste spedizioni si trovano al presente in mano di S. M. Cattolica. Dicono i francesi che il re Cattolico arma ogni anno, ne fa intender con che oggetto, contro quello che usano di far loro, ed adducono che le condizioni delle armate di mare sono differenti da quelle degli eserciti di terra, i quali prima che si mostrino si sa dove son destinati, ma le armate si comparano con i falconi, che volano dove lor piace; lo che fa star i francesi in continua gelosia, massime dopo le intelligenze che gli spagnoli ebbero in Saluzzo, e ultimamente in Marsiglia. A questo si aggiungono le pratiche che i ministri di S. M. Cattolica hanno avuto con i malcontenti, e particolarmente con la casa di Momoransì, e ultimamente col re di Navarra, e che di Spagna abbia egli avuto denari per muovere le armi nel regno e per divertir quelle di Alansone in Fiandra. All'incontro gli spagnoli danno per discolpa dell'arnare che le occasioni sono state note, come l'imprese di Portogallo e della Terzera, e l'assicurar le flotte dai nemici, e anco il guardar tanti stati di marina; e che essendosi scoperti i trattati de' francesi in Perpignano, Salses, Fontarabia, San Sebastiano, e per quelle altre frontiere, non è meraviglia se essi all'incontro tengono vive delle pratiche per loro necessaria difesa. E che la volontà loro sia di mantener la pace, dicono potersi argomentare dal tempo dei maggiori travagli di Francia, che stava in mano loro impadronirsi della metà di quel regno, e non pur non l'han fatto, ma hanno al re prestato ogni-aiuto. E che sapendosi ora quanti mali uffici fanno fare a Costantinopoli per ché esca l'armata a danni di Spagna, ciò è cagione che loro si valgano di tutte le intelligenze possibili per favorir la loro giusta causa.

Non possono patire i francesi che le navigazioni alle Indie orientali ed occidentali fossero ripartite tra spagnoli e portoghesi in virtù d'una decisione di papa Alessandro VI senza intimar le parti. Ma gli spagnoli dicono che, oltre la decisione del pontefice, vi son patti e capitolazioni particolari con i francesi che si debbano astener da quelle navigazioni; il che però da loro viene negato. A questo si aggiunge che il re Cattolico per spazio di alquanti anni non ha tenuto amba sciatore in Francia, mentre il Cristianissimo l'ha tenuto in Spagna, finché parendo a francesi che ciò fosse con troppa diminuzione della loro antica dignità, l'han levato; e da ciascuna parte si tiene ora un agente, ma però con provvisione d'ambasciatore di 6000 scudi l'anno. Si scusano gli spagnoli che essendosi levato don Gio. Idiaquez da Venezia per man darlo in Francia a risiedere, occorse a S. M. di valersi d'esso per segretario di stato, e che in questo mentre continuando i francesi in tanti atti ostili contro la corona di Spagna, non le pareva necessario ne conveniente mandar ambasciatore a risiedere presso principe che non si tiene per amico. La regina madre, che è quella che muove e governa tutta questa macchina, avrebbe per fine di accomodar questi dispareri col mezzo del matrimonio della seconda infante col duca d'Alansone, e l'ha fatto negoziare più volte e non cessa ancora; ma il re ha sempre risposto che mostrerebbe di farlo per tema se monsignore non restituisse prima Cambrai, il che non è credibile che i francesi siano per fare, anzi pretenderebbero d' avvantaggio, e forse di voler navigare verso qualche parte dell'Indie, mettendo innanzi a S. M. Cattolica ch'ella con questo mezzo verrebbe a sottometter la Fiandra e confermarsi nel possesso del regno di Portogallo; ma ciò non verrà loro mai permesso dai spagnoli, che stimano lor proprie quelle conquiste. Si stima bene che il re, per finir un giorno la guerra di Fiandra, si con tenterebbe di buone condizioni mentre vi concorresse la sua dignità; ma in quello che tocca alla navigazione delle Indie non vi consentirà mai. E quanto al matrimonio, i medesimi spagnoli sostentano questa massima, che sì come al re loro sta bene e conviene maritarsi in Francia, massime che la memoria della regina Isabella vivrà sempre, così non sta bene ad esso re maritar in Francia alcuna sua figliuola, perché i discendenti di essa potrebbero ereditare, in difetto di figliuoli dell'infanta maggiore e del principe, e così venir ad unire queste due corone con far Spagna soggetta a Francia, massime che il patto e la fortuna non può esser reciproca, perché le donne di Francia non ereditano in virtù della legge che dicono salica.   

Don Antonio di Portogallo si trova tuttora in Francia, dove si trattiene infelicemente essendogli mancati i favori del re e della regina da che vi entrò, e di Portogallo gli sono in gran parte cessati quegli aiuti che soleva avere; onde il re non ha per questo che temere dei casi suoi. Con tutto ciò verrebbe volentieri a concerto se don Antonio venisse all'obbedienza e a fidarsi della sua promessa; perché in fine conosce che senza questo concerto egli non potrà mai viver quieto mentre che don Antonio viva. Per questo oggetto dell'accordo non ha mai disposto della sua commenda maggiore di S. Giovanni in Portogallo, che vale 20,000 scudi l'anno, nemmeno dei frutti decorsi di tre anni.   

Dalla regina d'Inghilterra dipendono in gran parte i travagli di Fiandra, e con tutto ciò conviene al re dissimulare per non se la render aperta nemica, anzi difenderla dai Francesi o da altri che l'assalissero, per riservarsi all'impresa di quel regno quando sia tempo che ciò gli possa succedere. Per questo d' ordinario vi tiene il re un residente, che è don Bernardino di Mendoza, se ben non gli dà nome di ambasciatore acciò la regina non abbia occasione di mandarne un altro in Spagna, non gli mettendo conto questa comunicazione rispetto alla religione. Il pontefice non cessa di sollecitar il re a quel l'impresa, e perché non lo può indurre d'un colpo, cerca di tirarlo a poco a poco, come avvenne gli anni passati, che volendo Sua Santità favorire i sollevati d' Ibernia, vi mandò una banda di soldati e indusse il re a fare altrettanto; e sì come tutti si perdettero malamente, così, se fosse in qualche parte riuscito il disegno, non poteva S. M. ritirarsi, e le sarebbe convenuto proseguir l'impresa tiratavi per forza e non volendo. Ma d'ora innanzi bisognerà che provveda con maggior circospezione rispetto alla confederazione della regina col turco. Gl'ibernesi, ovvero irlandesi, continuano frattanto a star alzati contro Inghilterra, e domandano a Spagna che li riceva o dia loro un re; e già altra volta richiesero don Giovanni, altra il duca d'Alva.   

Con altri principi settentrionali, come Polonia, Svezia e altri, non ha S. M. Cattolica interesse che stringa.   

Col Turco ha avuto già tre anni di tregua, procurata perché non le venisse impedita l'impresa di Portogallo, ben ché questo sia più tosto stato effetto della continuazione della guerra di Persia che della tregua. Si mosse anco S. M. a concluderla per levar ai fiamminghi quella speranza, che dai francesi era loro messa innanzi, che i turchi si muoverebbero a danno di S. M. Cattolica, la quale per difendersene avrebbe dovuto cessar dalla guerra in Fiandra. E la confermazione della tregua l'ha S. M. desiderata per i medesimi rispetti di confermarsi bene nel possesso di Portogallo, ed attendere alla riconquista di Fiandra. Al pontefice, che vi si è opposto quanto ha potuto, S. M. ha fatto dire, che stando quasi tutti gli altri principi cristiani in pace col turco, essa sola non ha da sostener la guerra, ma che se altri si moveranno essa non mancherà di seguirli; e veramente è da credere che per di fendersi da vero dal turco converrebbe a S. M. abbandonar tutte le altre imprese. Il piè che il turco va ponendo sempre più, gagliardo in Barberia torna di estremo pregiudizio alla Spa la quale non ha a temer da alcuna altra parte più che di Barberia; e le spiace sommamente vedere che Occhiali con l'armata frequenti ogn'anno il viaggio d'Algeri. L'anno dell'82 andò ad abboccarsi in Algeri con esso Occhiali un Andrea Corso, il quale trattò che desse l'armata al re, e venivano ai particolari della ricompensa; e se ben non fu concluso cosa alcuna, è assai che Occhiali desse d'orecchio alla negoziazione. Si crede bene che se esso Occhiali continuerà a frequentar quel viaggio con poca armata, il re s'abbia a risolver di farla combatter dalla sua, che al sicuro sarà più numerosa e più potente.  Col Persiano tiene ora la M. S. amistà e confine nelle Indie orientali come re di Portogallo, e da Lisbona mandò uno espresso a confermarla, con ordine che riportasse partico lare informazione non pur della grandezza e potenza del Per siano, ma di quegli altri principi e potentati d'Oriente. Col re di Fez, detto il Seriffo, tiene S. M. buona amicizia per sicurtà dei suoi stati di Spagna, acciò non si faccia più confederato dei turchi, volendo aver per vicino più tosto quello che questi. In Algeri trattengono i turchi un figliuolo d'un predecessore di questo seriffo, il qual pretende alla successione, e in Lisbona il re ne trattiene un altro che pretende d'avervi maggior ragione ancora; onde al presente re di Fez convien stare in buona con tutti per conservarsi in stato, da lui più tosto usurpato che ereditato. Ha preteso S. M. con questa amicizia d'impadronirsi d'un posto sullo stretto di Gibilterra detto l'Arachia, che era ridotto di corsari; e se ben era del seriffo, però serviva più ad uso dei corsari d'Algeri che altro; e s'era contrattato di cambiarlo con un'altra piazza del re fuori dello stretto, mostrandogli S. M. che questo tornava egualmente a comodità e sicurtà di tutti. Ma se ben esso ha promesso più volte di effettuarlo e stipularlo anco per strumento, nondimeno non è mai dato l'animo di adempire la promessa per tema dei turchi e dei mori medesimi. E S. M. ha avuto rispetto di usar la forza per non violar la pace che tiene con esso re e la tregua col turco. Ha il seriffo una milizia trattenuta d'ordinario di 60.000 cavalli e 25.000 archibugieri, però di poco buona qualità, e questi sono mori per lo più fuggiti dal regno di Granata.

Il duca di Savoia per i suoi interessi è tenuto che non si possa partire dalla devozione di S. M., ma stimano in Spagna che il duca sia inclinato a Francia per rispetto della madre che fu francese, per l'educazione, e per i ministri che ha d' intorno; ma con tutto ciò pretendono che, quando anco egli si maritasse in Francia, non si potrebbe scoprir diffidente di S. M. Cattolica rispetto al suo interesse. Il suo matrimonio con una figliuola di S. M. si pratica tuttavia strettamente, ed è stimato riuscibile per molte ragioni che vi concorrono d'ogni parte [15]. Ha il duca due principali negozi alla corte oltre quello del matrimonio, che è principalissimo: l'uno che tocca alla sua religione di san Lazaro, l'altro all'impresa che pretende far di Ginevra e forse del marchesato di Saluzzo, e che S. M. vi concorra con le sue forze; ma essa, sì come lauda la generosità del pensiero, così, in particolare di Ginevra, non stima questo tempo opportuno a simili imprese.

Il granduca di Toscana è tenuto anch'esso per parziale e devotissimo di quella corona, e lo mostra con tutti gli effetti possibili, scoprendosi amico degli amici e nemico degl'inimici della M. S., alla quale serve con tutti i modi possibili. Il cardinale de' Medici è protettore in Roma di Spagna, e dà gran soddisfazione a S. M. Il sig. don Pietro suo fratello ha servito di generale degl'italiani nella guerra di Portogallo con suo grand'interesse e grandissima soddisfazione del re e della corte. Pretende il titolo di generale delle genti italiane da per tutto dove si trovasse, con provvisione, che se ben è carico nuovo e non più dato, tuttavia S. M. non lascerà di soddisfarlo. Il granduca la serve poi ordinariamente con lo stato, i sudditi e le facoltà proprie, talmente che la M. S. dispone di quello stato come del suo proprio, leva soldati quanti vuole, ed è servita di denari in grosse partite, che il granduca tiene riservate d'ordinario per trattenere quella servitù. Tiene esso diligentemente avvisata S. M. delle nuove di levante e di tutte quell'altre ancora che possono giovare al di lei servizio; vorrebbe anco servirla con una banda di sedici galere, avendo modo d'armarne d'avantaggio, e per generale disegna il granduca introdurre don Gian nino suo fratello (naturale); ma ossia per la spesa, o per altro, S. M. finora non ha risoluto cosa alcuna. E perché il granduca sa che non dispiace manco a S. M. di quello che a questa Repubblica il mandar in corso le quattro galere della religione, rispetto alla tregua turchesca, si giudica ch'esso possa aver in ciò uno di questi due fini, o di costringer con questo mezzo il re a prendere le galere al suo soldo, come le altre de' particolari, a 500 e più scudi al mese, ovvero indurlo a domandargli in piacere che si astengano dal corso, al che il re si moverà difficilmente per interesse della dignità sua. Dunque per tutte queste cause si può credere con ragione che il granduca sia favorito a quella corte, e i suoi ministri ben veduti, tanto più che usa spesso di donare e al re ed ai ministri; onde non ha dubbio che passerà innanzi con la sua pretensione di maggioranza tra i duchi d'Italia, e spererà di aver le piazze possedute da S. M. alle marine di Toscana, che non gli riuscirà però. Una sol cosa pare che potrebbe sturbare questa buona intelligenza, ed è se il granduca maritasse la sua figliuola maggiore nel duca di Savoia senza partecipazione ed assenso di S. M.; il che però difficilmente viene creduto a quella corte che possa succedere, per la devozione d'ambedue quei principi alla corona di Spagna.     

Il duca di Ferrara è tenuto per se stesso, per il cardinal suo fratello, e per il nascimento di tutti due, di nazione francese, ne bastano a far creder il contrario gli umili uffici che fa fare il duca, la profferta dei denari in concorrenza con Toscana, e la proposta di maritar in chi sia per piacere alla Maestà Sua don Cesare d'Este, che dicono dover succedere al ducato. S. M. non ha voluto accettare alcuna di queste profferte per non esser in certo modo astretta a dar gli titolo d'illustrissimo, e trattarlo del pari con Savoia e con Toscana, se bene il cardinal di Granvela lo consigliava viva mente a ciò; ma esso è tenuto per poco amico di Toscana. Affermo ben io questo, che in corte non spiace l'immoderata ambizione dei titoli sorta nei principi d'Italia, ne le pretensioni di maggioranza tra loro; anzi i ministri regi in Italia tengono ordine di lasciarla passar innanzi, e più tosto nutrirla e fomentarla, parendo che abbia da servir di contrappeso ai tanti legami di parentadi che sono tra di loro, e alle ricchezze grandi alle quali sono pervenuti, e per le qua li non sono più tanto ossequenti ed obbedienti al re come già erano, parendo loro d' esser atti ciascuno a difendersi da per se, ed a piegar a quella bandiera che più lor piace; e sì come dicono ciò esser frutto della lunga pace d' Italia, però questa dispiace ad alcuno del principali ministri.   Il duca di Mantova e tutta la casa Gonzaga è tenuta per obbligata e dipendente dalla corona di Spagna, benché il duca presente in alcune cose cominci a far del neutrale, ne il principe degeneri del padre.   

Il duca di Parma è stato sempre poco confidente del re, e così il cardinal suo fratello; e questa disconfidenza è accresciuta per conto del vescovo di Parma, mandato in Portogallo in tempo dell'interregno per favorir la giustizia del principe Ranuccio sopra quel regno, e caduto poi in opinione d'aver favorito don Antonio quando si alzò per re in Setúbal, e consigliata la fortificazione di quella piazza. E se bene S. M. ha causa di lodarsi della servitù del principe in Fiandra, però non se ne fida compitamente, e per questo non permette che nell'esercito vi sia più numero d'italiani che di spagnoli; e la sua pretensione del castello di Piacenza potrebbe andar in lungo[16].  

Il duca d'Urbino si è obbligato al re con 12.000 scudi di piatto e una compagnia di gente d'arme in Napoli senz'altro, che è quasi la metà meno di quello che godeva suo padre. L'intenzione del re è stata di legare il duca a non poter disporre di se stesso ne dello stato, ma non di servirsi di lui, e si diceva pubblicamente in corte che il cardinal di Granvela, che fu quello che condusse la cosa, l'aveva fatto per levarlo alla Repubblica. Resta ora il duca con la pretensione del Tosone come lo aveva suo padre, e lo avrà, come presto lo avranno quasi tutti i principi d'Italia.   

La signoria di Genova dipenderà sempre dal re per l'interesse suo pubblico e particolare, che è noto a tutti. Ed ora ha ella due negozi in corte; l'uno, di aver il titolo di illustrissima, come ha Savoia e Toscana, promessole dal re ad istanza del signor Gioan Andrea Doria, sebben non si è mai effettuato; l'altro, la restituzione del Finale al marchese suo legittimo padrone che ne fu cacciato.  

La repubblica di Lucca è raccomandata alla protezione del re, senza la quale già sarebbe caduta in mano di Toscana per una parte e di Ferrara per l'altra, confinando con tutti due questi principi.

La M.S. ha poi lega, come si sa, cogli Svizzeri per la difesa di Borgogna e di Milano; e con i Grigioni soleva aver confederazione, la quale ora si deve rinnovare per opera del governator di Milano. 

Ispeditomi della intelligenza del re con i principi d'Italia e di fuori, vengo a dire qualche cosa della sua volontà verso questa serenissima Repubblica; la quale, s'io volessi argomentare dalle dimostrazioni esteriori, direi che fosse buonissima, poiché mi ha sempre S. M. accolto con dimostrazioni di singolar umanità e cortesia, e trattato indifferentemente dal nunzio apostolico e dall'ambasciator dell'imperatore, ché altri ambasciatori regi non vi sono oggidì in corte. E le parole che mi ha usate S. M. sono state sempre affettuose, e volte ad accertarmi della sua buona volontà, e che come stimava propri gl'interessi della Repubblica e la sua conserva zione, così vi porrebbe sempre le sue forze, come di tempo in tempo ne ho dato avviso; e queste parole le ho vedute comprovate da quegli effetti che ha portato con se la qualità dei negozi che mi sono occorsi a trattare. Ma perché queste sono dimostrazioni esteriori, che non concludono una perfetta buona volontà del re verso la Repubblica, mosso da queste con siderazioni, io non affermo alcuna cosa, sapendo che i principi si muovono principalmente per il proprio interesse. Ma per il proprio interesse suo appunto credo che S. M. sia tenuta di desiderare la perpetuazione di questa Repubblica, e di darle sempre ogni soddisfazione. Poiché ella ha sempre potuto scorgere il fine di Vostra Serenità conforme col suo, di voler la conservazione della pace nella cristianità, e particolarmente tra la sua corona e quella di Francia; e tutti gli uffici che per questo si son fatti sono sempre stati ben intesi, come saranno per l'avvenire ancora, con che si verrà a levar la suspicione che molti hanno che la Repubblica vedrebbe volentieri la rottura tra quei due re, o perché le dispiaccia questa troppo eccessiva grandezza del re di Spagna, o perché gliene potesse risultar qualche benefizio, se ben in effetto non si avrebbe ad aspettar che male, perché non si può star sempre dentro i termini della neutralità, e per ventura non perderebbe il turco l'occasione di muoversi ai danni della cristianità. Io credo che il re conosca gl'interessi della Repubblica comuni con i suoi rispetto alle cose turchesche, e le sue forze sole da mare non bastar a battere il turco ne a far con lui guerra offensiva, e costargli più la difensiva da se solo, avendo a guardar tante fortezze e tante marine, che la offensiva in compagnia di altri, poiché viene a tener l'inimico lontano ed in officio. Ma questo medesimo non vedo già che sia conosciuto dai suoi ministri, perché ve ne sono alcuni tanto duri, come il cardinal di Toledo, il marchese d'Aguilar ed altri, che non stimano che le fortezze ed isole della Repubblica in levante siano il propugnacolo e l'antemurale della cristianità, ne che dalla difesa d'esse dipenda particolarmente la sicurtà degli stati di S. M. in Italia. Con tutto ciò, sempre che si tratterà della difesa della Repubblica contro il turco, credo che il re per proprio interesse vi si mostrerà pronto, specialmente se Vostra Serenità, prevedendo il bisogno di lontano, negoziasse per tempo quello che le conviene, mostrando più tosto di farlo per elezione che per necessità, e più tosto per zelo del ben comune che per il suo proprio. Oltre di questo è da presupporre una tardanza grandissima in tutte le risoluzioni, la quale si vede ordinariamente nelle cose lor proprie anche di somma importanza, ne però è da meravigliarsi di vederla nelle altrui; ne è da attribuirlo sempre a difetto di volontà, ma più tosto a costume della nazione; onde per questo, e per vantaggiare la negoziazione, s' avrà a prevenir di lontano. E il pontefice più d'ogn'altro sarà sempre buon mezzano, trattandosi di cosa concernente il ben comune della cristianità.   

Don Giovanni Idiaquez, che è stato ambasciatore alla Serenità Vostra, ha fatto in Spagna una impressione, che le fortezze della Repubblica in levante, e particolarmente in Candia, siano molte e non molto ben munite ne presidiate, e i sudditi greci non molto contenti; dal che vuol inferire che se una piazza, che a Dio non piaccia, cadesse in mano dei nemici, difficilmente si terrebbero le altre, e che per conservarle Vostra Serenità avrebbe bisogno di aiuto. Ma ancorché quel l'isola sia più vicina alle offese del turco che comoda alla difesa della Repubblica, non è però tanto lontana, che non si possa sperar di conservarla; il che importa tanto alla cristianità e alla sicurtà e reputazione della Repubblica. Però si ha da pensare a tener ben munite e presidiate le fortezze, come ad assicurarsi quanto più si può della benevolenza de' popoli. Quelli che alla corte amano poco il bene della repubblica (che non può mancar che da per tutto non ve ne sia qualcheduno), dicono che come il re per sua natura è memore delle offese ricevute, non si sarà dimenticato dell'ultima pace turchesca fatta senza sua partecipazione; dal che vogliono inferire che la volontà del re non sia buona verso la Serenità Vostra. Ma la risposta vera e concludente è che le giustissime ragioni che mossero la S. V. alla pace furono approvate dal re e giustificate dall'illustrissimo sig. cav. Giovanni Soranzo, che fu ambasciatore espressamente mandato per questo, ne dopo si son mai veduti in S. M. altri segni che di ottima volontà. Ma io dico che se, per qualsivoglia causa, fosse restato nell'animo del re un poco d'ombra o di torbido, si sarebbe dissipato affatto in quest'ultima occasione della conquista di Portogallo, perché V. S. non gli ha dato pur un minimo sospetto che non fosse per piacerle questo suo accrescimento d'imperio, anzi mostrò segni in contrario, per ché quanto maggiori saranno le sue forze tanto maggior comodità avrà per opporsi alla potenza del turco. E quando V. S. mi mandò in Portogallo al re cardinale (1579), il duca d' Ossuna, don Cristoforo de Mora, ed altri ambasciatori di S. M. Cattolica, che si trovavano allora a quella corte, restarono molto bene edificati che dalla Repubblica non venissero offici che contrariassero punto al servizio del loro re; il che non poté causar che buon effetto nell'animo di S. M. La quale si sarà poi compitamente accertata della buona volontà di questo serenissimo dominio verso il servizio suo con la solenne e numerosa ambasciata che V. S. le mandò per rallegrarsi di quella conquista, e la qual giunse a Lisbona in tempo che S. M. vi era arrivata poco prima, e gli animi dei Portoghesi erano molto alterati in favore pure di don Antonio. E questa onorata dimostrazione di V. S. non poté far che buon effetto in servizio di S. M., tanto più che il pontefice, l'imperatore, ne altri principi grandi, non si mossero per diversi rispetti a mandar ambasciata espressa per questo effetto. Il che fu causa di far maggiormente risplendere l'onorata presenza dei sig. cavalieri Tron e Lippomano; ed oso dire che il re, nimico di cerimonie per sua natura e dei complimenti, non ricevesse mai più volentieri ne più onoratamente alcun'altra ambasciata che quella della S. V., rispetto al tempo, al luogo, all' occasione, e a tutte le circostanze che concorsero in essa.

Tutto questo tempo che sono stato in Spagna ho sempre sentito far menzione che il re nominava un ambasciatore per risiedere presso la S. V., e il cardinale di Granvela e don Giovanni Idiaquez mi hanno detto più volte che vi erano più di dodici competitori di diversa qualità, perché questo grado era atto per tutte le pretensioni; e, che S. M. non re stava per altro a risolversi che per vacar anco il luogo di ambasciatore in Francia e all'imperatore, non volendo elegger l'uno senza l'altro. Ma un soggetto principale mi disse che S. M. si risolverebbe facilmente di nominarlo solo e prima di tutti, se V. S. lo sollecitasse con qualche officio. Ma come in ogni cosa l'EE. VV. si governano prudentemente, così per mio credere faranno in questo caso col non procurarne parola; perché se ben gli ambasciatori fanno onore a chi li riceve, non dimeno la difficoltà di precedenza tra Francia e Spagna, che dovrebbe già esser sopita, intendono gli spagnoli di rinnovarla, perché come il loro re è accresciuto di forze e d'imperio, così anco intendono che abbia da crescere di dignità e di riputazione; e forse tenteranno che il pontefice lo elegga imperatore di tutta Spagna, e dell'una e l'altra India; la qual cosa per essere stata altre volte promossa dal cardinal S. Clemente, potrebbe ora esser rivificata se la Germania e la Francia non vi si oppongono. Il duca di Savoia Emmanuel Filiberto non volle mai alla sua corte per nessun accidente ambasciatori ne di Spagna ne di Francia, per questo rispetto della precedenza. Ma ora che gli spagnoli dicono cessata del tutto a Roma l'occasione della precedenza, dopo che gli ambasciatori non van più in cappella ne in cerimonia, non sarebbe molto che pretendessero che anco altrove fosse intro dotto il medesimo.

Non tacerò anco questo alla S. V., per conclusione del mio parlare, che sarà prudentemente fatto il continuar a comunicar a S. M. gli avvisi di levante, perché è stimata la Repubblica per meglio avvisata d'ogn'altro principe per i suoi interessi. Non dico far quest'officio d'ordinario, ma quando occorre qualche cosa degna d'esserne S. M. avvertita, o per interesse degli stati suoi o per servizio della cristianità. E può esser certa V. S. che questo officio non servirà che di complimento, perché i viceré di Napoli e di Sicilia tengono spie ed intelligenze ordinariamente in levante, e l'ambasciatore di Spagna in Roma ne tiene in Ragusa, e sa tutto quello che perviene a notizia del papa; ed è da credere che il segretario Salazar in questa città faccia ancor esso la parte sua, oltre che il granduca di Toscana in questo è vigilantissimo. Ma le comunicazioni di V. S. serviranno a dimostrar benevolenza al re, e a fare strada per trattar senz'affettazione tutto quello che portasse l'occasione a benefizio e sicurtà della S. V. in levante.   

È molto ben noto che alla corte di Spagna, oggidì riputata la maggiore della cristianità, tutti han volti gli occhi, e particolarmente i principi d'Italia, che pretendono accrescimenti di titoli e di dignità per preceder l'uno all'altro e per esser maggiormente reputati nelle altre corti; e sì come in questo tra loro sono discordi e passano mille emulazioni, così sono unitissimi in sentir male la divisione dell'ordine degli ambasciatori che è in quella corte, rispetto a quelli che non han luogo in cappella. E come questi principi al tre volte solevano tenere ambasciatori quasi a tutte le corti per rendersi grati a molti, così ora li tengono a pochissime, per poterli mantener, senza aumento di spesa, con maggior dignità e splendore; il quale oggidì è necessario in tutte le corti, ma in quella di Spagna sopra le altre come la maggiore di tutte. Onde con molta sapienza si muovono le EE. VV. a mandar a quella corte ambasciatori prudenti, come han fatto sempre, eccetto quando fecero elezione della persona mia, che fu per pura grazia e benignità di questo eccellentissimo Senato. Perché se per qualche accidente si venisse a pregiudicar una volta all' antica dignità di questa serenissima Repubblica, sarebbe piaga quasi irrimediabile, e che avrebbe conseguenza in tutte le altre corti, che pare prendano norma da quella di Spagna come maggiore di tutte.   

Mio predecessore è stato il sig. cav. Gioan Francesco Morosini ec.   

Mio successore, il clariss. sig. Vincenzo Gradenigo, soggetto ec. -   

 

[1] Filippo figlio del maresciallo Piero Strozzi comandava la flotta francese allestita sotto specie di venturieri, ma in effetto coi sussidi di Caterina de' Medici, in aiuto di don Antonio. Ferito mortalmente e caduto in mano dell'ammiraglio spagnolo Santa Croce, costui lo fece a dirittura gettare in mare, e parte impiccare e parte decapitare tutti gli altri francesi che avevano preso parte alla spedizione. Ciò fu a'26 di luglio del 1582.

[2] Non era bastato sino allora, malgrado che fino dal 15 marzo del 1580 Fi lippo II avesse messo a prezzo la sua testa. Ma finalmente in questo medesimo anno 1584, ai 10 di luglio, Guglielmo d'Oranges fu assassinato a Delf da Baldassarre Gèrard.

[3] Già da diciassette anni; e vi rimase per altri undici, cioè fino al 1595.

[4] Seguita l'oratore a chiamare con questo titolo il fratello di Enrico III, sebbene fino dal 1576 avesse ricevuto il titolo di duca d'Anjou, col quale da allora in poi fu più generalmente conosciuto.

[5] Ciò fu nel gennaio 1583. Il duca d'Anjou, il quale voleva arrogarsi sulle Fiandre maggiore autorità che i sollevati non gli avessero concesso, volle tentare d' impadronirsi per sorpresa di Anversa, ma respinto bravamente dal popolo, dovette tornarsene in Francia, dove morì il 10 giugno di quest'anno 1584

[6] Il duca di Medina Sidonia ebbe poi, nell'88, il comando della grande arma da, che perì sotto il doppio flagello degl'Inglesi e delle procelle, senza che mai più potesse la Spagna venir in grado di tentare uno sforzo simile a quello.

[7] Il Santa Croce, che era appunto, come qui dice lo Zane, il miglior soggetto da condurre armata che avesse il re, era destinato alla famosa spedizione sopradetta del 1588, quando venuto repentinamente a morire in Lisbona, il comando fu deferito al duca di Madina Sidonia

[8] Chiamato nel 77 dai sollevati come governator generale delle provincie in sorte, l'arciduca Mattias, fratello dell'imperatore Rodolfo, e stretto parente di Filippo II, si trovava in condizione così difficile per poter soddisfare ai desideri di chi lo aveva chiamato, e forse al suo intendimento del dominio definitivo di quel paese, che nell'81, come abbiam detto nell' avvertimento, se ne - dovette partire.

[9] Delgado teneva il segretariato cosi delle forze di terra che di mare. Ma venuto egli a morte nel 1586, il re divise quelle attribuzioni tra due segretari.

[10] Abbiamo altrove veduto che la quarta ed ultima. Anna d'Austria, gli mori il 26 ottobre del 1580

[11]  Maria, sorella di Filippo II e vedova di Massimiliano II, passata sulla fine del 1381 a vivere in Spagna, dove morì nel 1603.

[12] Quegli del quale è qui discorso è don Rodrigo di Castro arcivescovo di Siviglia, che ci ha dato luogo ad una speciale considerazione nell' Avvertimento,

[13] Il secondo di questi fu effettivamente il successore di Gregorio XIII sotto il nome di Sisto V.

[14] Fatto è che l’infanta Caterina andó in moglie l'anno appresso al duca di Savoia; che sospeso lungamente il matrimonio dell'infanta maggiore Isabella, l'arciduca Ernesto andette nel 94 governatore delle Fiandre, dove poco appresso morì; che Isabella sposò nel 98 l'arciduca Alberto, il qual depose la porpora; e che la successione all'impero cadde nell'altro fratello di Rodolfo, l'arciduca Mattias.

[15] Come altrove abbiam detto, il matrimonio di Carlo Emmanuele coll' infanta Caterina fu concluso in questo stesso anno 1584 e consumato nell'anno susseguente.

[16] Così non fu; e l’occupazione di quel castello cessò nel 1585, però sotto secrete condizioni che salvavano le ragioni dell’impero; condizioni che furono conosciute fin d'allora dai gabinetti, come vedremo in altre relazioni, ma che vennero in pubblico soltanto un secolo e mezzo dopo per opera del senator Cola, quando, estinta la linea mascolina dei Farnesi nel 1731, Roma si provò a rivendicare a se quello stato come feudo della Chiesa.

 

TEXTOS CONSULTADOS

 

Julieta Teixeira Marques de Oliveira, Fontes documentais de Veneza referentes a Portugal, INCM, Lisboa, 1997

 

Julieta Teixeira Marques de Oliveira, Veneza e Portugal no século XVI: subsídios para a sua história, INCM, Lisboa, 2000

 

Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, Série 2, Tomo IV, Firenze, 1857

Online: Archive e Google Books

 

Le Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, Série 1, Tomo V, Firenze, 1861

Online: Archive e Google Books

 

P.D. Stefano Cosmi, Memorie della vita di Gio. Francesco Morosini, Cardinale e Vescovo di Brescia, Veneza, 1676

Online: Google Books